TRA FEDE E CULTURA

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Da lassù si ha una delle più belle viste sull’Acropoli di Atene. È un picco roccioso denominato Areopago dal dio marziale Ares ed era la sede del Bouleutérion, il supremo tribunale della città. Oggi su quella collinetta si leva una grande lapide che reca inciso nel greco neotestamentario il discorso che l’apostolo Paolo pronunciò attorno al 49/50 e che è conservato negli Atti degli Apostoli (17,22-31), un’allocuzione solenne, ascoltata con interesse ma sfociata in finale in un vero e proprio fiasco. Infatti, la menzione della risurrezione di Cristo dai morti aveva provocato una reazione sarcastica da parte dell’uditorio: «Su questo tema ti ascolteremo un’altra volta!».

         E sì che Paolo aveva cercato in tutto il suo intervento di «accarezzare» quel pubblico esigente e sofisticato. Ho avuto la fortuna di aver seguito un corso dedicato integralmente al commento di quel testo da parte di uno dei maggiori grecisti, autore di un fondamentale Lexicon platonicum, il gesuita francese Édouard des Places (1900-2000). Ebbene, uno dei punti topici era nel passo che suonava così: «In lui (Dio) viviamo, ci muoviamo ed esistiamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: Perché di lui anche noi siamo stirpe» (17,28), in greco: tou gar kai ghénos esmén. Il verso è il quinto dei Fenomeni, un poemetto didascalico di 1154 esametri composto da Arato di Soli in Cilicia (IV-III sec. a.C.). Una frase analoga è, però, reperibile nel più celebre Inno a Zeus di un suo contemporaneo, il filosofo stoico Cleante di Asso, un canto alla mente divina che governa il cosmo, giunto a noi solo in una quarantina di versi superstiti.

         Questa ampia divagazione vorrebbe illustrare una prassi costante nella letteratura spirituale di ogni epoca, quella di attingere alla cultura profana per individuare i «semi del Verbo» divino in essa celati, come usavano dire i Padri della Chiesa. Un emblema di questo dialogo interculturale e interreligioso potrebbe essere il Discorso ai giovani che Basilio di Cesarea elaborò tra il 370 e il 375. Indirizzandosi forse ai suoi nipoti, quel vescovo cappadoce esaltava la preziosità delle opere degli autori éxothen, «fuori» dal cristianesimo, sia per il loro argomentare (lógoi), sia per le stesse práxeis, ossia per l’etica comportamentale da loro suggerita, così da far diventare i loro scritti un ephódion, un «viatico» per la formazione dei giovani cristiani.

         Si parva licet componere magnis – tanto per usare la celebre formula di un altro classico come il Virgilio delle Georgiche (4,176) – proponiamo, tra i molti che continuano ad applicare questo metodo a livello appunto più modesto (inter quos et ego), le «passeggiate letterarie» di un sacerdote milanese contemporaneo, Paolo Alliata. In una sorta di caleidoscopio, egli incrocia l’annuncio cristiano con rimandi alla letteratura «profana», allargando talora lo sguardo al cinema o ai media moderni. Solo per esemplificare, attingiamo all’ultimo suo volume che, per illustrare il sentiero che conduce alla gioia squisitamente evangelica (chi non ricorda le «Beatitudini» del Discorso della montagna di Gesù?), ricorre al nóstos, cioè al viaggio di Odisseo verso la sua amata e indimenticata Itaca, ma si affida anche ad altre guide più vicine. Forse è scontato pensare al cuore gelido di Scrooge che Dickens nel Canto di Natale riesce a far battere nuovamente d’amore.

         Meno atteso è, invece, l’invito a inseguire il tormentato percorso interiore del Grande Gatsby di Fitzgerald o il sorprendente Agilulfo, il calviniano Cavaliere inesistente, che «elabora le sue strategie di senso per non sprofondare nell’angoscia del disfacimento delle cose, dell’io che si dissolve». L’approdo, in questo incessante contrappunto tra fede e cultura è nel chestertoniano Innocent Smith, l’Uomovivo che, «disgustato fino alla nausea da quel pessimismo che si era sbriciolato davanti alla sua pistola, decise di essere un fanatico della gioia di vivere». A questo punto proponiamo, a suggello della nostra riflessione, un salto ulteriore di qualità verso l’alto, sempre stando nell’ambito del dialogo tra teologia (o spiritualità) e letteratura.

         Sono stati riediti recentemente gli scritti che uno dei maggiori teologi fondamentali del Novecento, Hans Urs von Balthasar, ha dedicato al poeta Paul Claudel, incamminandosi – come aveva fatto per tanti altri autori nel suo imponente capolavoro Gloria – nell’orizzonte ove s’incontrano teologia e poesia e, in questo caso, anche il teatro. Due raffinati specialisti del suo pensiero come Elio Guerriero e Danilo Zardin con le loro note di lettura ci guidano lungo i ramificati itinerari imboccati dal grande teologo svizzero, raccogliendo testi di non facile accesso, pronti a interloquire con l’intera opera lirica di Claudel, ma anche col suo interrogarsi sull’eros e le sue degenerazioni, coinvolgendo anche lo scrittore inglese Charles Morgan (1894-1958).

         Ma il cuore di questa esegesi teologico-poetica balthasariana di Claudel è in quel gioiello che è La scarpetta di raso (1929), ove sbocciano i fiori colorati e affascinanti della vita e dell’amore, ma anche quelli più oscuri e vellutati della morte e del mondo, riassunti nel protagonista, il missionario naufrago, avvinto a un legno, una sorta di croce, sospesa sul nulla ma salvifica per il fratello Rodrigo e per l’amore di Donna Prodezza.

GIANFRANCO RAVASI

Paolo Alliata, Un sentiero per la gioia, In dialogo – ITL, Milano, pagg. 156, € 18,00.

Hans Urs von Balthasar, L’eros redento. Scritti su Paul Claudel, Eupress – Cantagalli, Lugano – Siena, pagg. 102, € 16,00.