LETTERA A FILEMONE

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Sono solo 328 parole greche, una manciata rispetto al capolavoro dell’Apostolo Paolo, la Lettera ai Romani, che ne conta ben 7094. Stiamo parlando di una sorta di biglietto indirizzato a un certo Filemone («amabile»), definito come «persona amata e collaboratore nostro», il più breve degli scritti neotestamentari paolini. Su questo foglietto, suddiviso ora in 25 versetti, uno dei nostri maggiori studiosi dell’Apostolo, Antonio Pitta, intesse un commento di oltre duecento pagine delle quali quasi venti di bibliografia, dimostrando quanto interesse abbia suscitato questa lettera a impronta autobiografica indirizzata – oltre che al destinatario principale – anche ad altre due persone, un «nostro commilitone» (in senso metaforico, nella battaglia per il Vangelo), Archippo, e una donna, Apfìa. Di lei sono state ipotizzate varie parentele con Filemone (sposa, figlia, sorella?).

         Il cuore del testo riguarda uno schiavo, un tale Onesimo, in greco «utile», sul cui nome Paolo intesse anche un piccolo gioco di parole: «Egli una volta era inutile per te, ma ora è utile per te e per me» (v. 11). L’Apostolo aggiunge una curiosa nota contestuale: «Io, Paolo, anziano, ma ora anche prigioniero di Cristo Gesù… ti supplico per mio figlio Onesimo, che ho generato nelle catene» (vv. 9-10). Dato, però, che può ricevere persone in visita, si tratterebbe della semplice custodia militaris, una sorta di arresti domiciliari come quelli del suo soggiorno romano, in attesa della sentenza finale della cassazione imperiale a cui Paolo era ricorso in appello: allora «Paolo trascorse due anni interi nella casa che aveva preso in affitto e accoglieva tutti quelli che venivano da lui» (Atti degli apostoli 28,30). Forse è proprio in queste coordinate storiche romane che dev’essere collocato lo scritto.

         Esso suppone che il rapporto di dipendenza tra il padrone Filemone e lo schiavo Onesimo, fosse stato interrotto da una fuga. Su questo dato si sono appuntate diverse interpretazioni, soprattutto quella che riteneva si trattasse di uno schiavo fuggitivo, rispedito a Filemone attraverso la calorosa mediazione dell’Apostolo per una benevola accoglienza. Pitta suggerisce, invece, un’altra lettura del caso: «Paolo scrive a Filemone per supplicarlo affinché, da una parte, riaccolga Onesimo come fratello e non più come schiavo e, dall’altra, glielo metta a disposizione come “collaboratore” nell’evangelizzazione». Una riammissione, quindi, non nell’organico familiare, ma per una destinazione missionaria al servizio dell’Apostolo.

         Certo è che il cuore tematico è la concezione cristiana nei confronti della schiavitù che, nell’epistolario a lui attribuito, Paolo affronta in modo non sempre omogeneo. Da un lato, infatti, ribadisce che lo statuto sociale della schiavitù non collide con la possibilità di essere cristiani, a differenza del giudaismo che con le sue osservanze rituali necessarie (ad esempio, il riposo sabbatico) dichiarava impossibile la coesistenza di questa duplice situazione. Celebre è l’affermazione della Lettera ai Galati: «Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo» (3,28).

         D’altro lato, però, senza contraddirsi per la ragione appena detta, l’Apostolo non esita in vari passi a raccomandare una corretta relazione di dipendenza dello schiavo e lo fa più volte con appelli etico-sociali legati alla struttura socio-culturale di allora. Eccone un esempio: «Voi schiavi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni: non servite solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore». Tuttavia aggiunge subito: «Voi, padroni, date ai vostri schiavi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo» (Colossesi 3,22; 4,1). La motivazione della radicale fraternità cristiana tra padrone e schiavo è innovativa, come si evince dalla «supplica» per Onesimo, «generato» alla fede cristiana da Paolo proprio durante la prigionia.

         A Filemone l’Apostolo chiede, infatti, di accoglierlo «non più come schiavo ma più che schiavo, fratello amato, soprattutto per me, ma quanto più per te nella carne e nel Signore. Se dunque mi sei partecipe, accoglilo come me» (vv. 16-17). Interessante è l’identificazione, da parte di Pitta, della «strategia retorica» con cui in queste righe Paolo adotta due argomentazioni per convincere il suo interlocutore. Significativi sono anche i paralleli che lo studioso intesse con lo stoicismo, a partire dal passo folgorante di una delle lettere di Seneca a Lucilio: «Sono schiavi. Sì, ma sono esseri umani. Sono schiavi. Sì, ma compagni sotto uno stesso tetto. Sono schiavi. Sì, ma anche umili amici» (47, 1). Il cristianesimo a questa comunanza radicale nell’umanità aggiunge una condivisione più alta, espressa dal sintagma «fratello amato».

         Il biglietto è studiato dall’esegeta, docente alla Pontificia Università Lateranense, in tutti i suoi segreti, nelle sfumature semantiche più recondite, nel coinvolgimento personale del suo autore, nella sua contestualità storica e culturale (fin nel dettaglio del «corriere epistolare», che in questo caso è lo stesso Onesimo, segretario, latore e lupus in fabula). Ma naturalmente una sezione finale è dedicata al messaggio teologico della lettera con le sue componenti cristologiche, ecclesiologiche e morali, tenendo conto anche della forte applicazione di Martin Lutero: «Questa lettera mostra un esempio mirabilmente caro di amore cristiano… Tutti noi siamo Onesimi di Cristo, se lo crediamo».

GIANFRANCO RAVASI

Lettera a Filemone, a cura di Antonio Pitta, Paoline, pagg. 216, € 34,00.