Il manager e l’abate

«Uno dei principali responsabili, forse il solo responsabile, dell’avvilimento delle anime è il sacerdote mediocre». Questo monito usciva dalla penna di uno scrittore che ha composto uno dei più acuti e drammatici ritratti sacerdotali. È Georges Bernanos che nel 1936 pubblicava quel capolavoro che è il Diario di un curato di campagna, divenuto anche uno straordinario film di Bresson (1950). Il protagonista, come è noto, non è un atleta della fede e della virtù: timido, maldestro, malato di cancro, con una tara ereditaria. Eppure in lui lo spirito di Dio è epifanico, anzi diafanico perché è trasmesso dalla sua carità, da una interiorità umile e sofferta, da una preghiera trasfigurante, da una vicinanza assoluta all’umanità sofferente e peccatrice.

Morirà come il Cristo agonizzante, spogliato, sporco di sangue, senza il conforto di Dio, assistito solo da un ex-prete e dalla sua compagna e sarà proprio lo spretato, che ha in sé ancora e per sempre il carattere sacerdotale, ad assolverlo nella confessione, prima che pronunci, spirando le sue ultime parole: «Che importa? Tutto è grazia». Sia pure a distanza siderale da quest’opera, si è registrato sempre il tentativo di scavare nell’intimità profonda del prete cattolico, soprattutto in questo periodo in cui si è sollevato il manto ipocrita di cui alcuni di loro si rivestivano, divenendo sepolcri imbiancati sotto le cui lastre marmoree si celano vermi e putridume, secondo la ben nota immagine evangelica.

In verità, la vulgata mediatica ha ormai, al riguardo, coniato un canone accusatorio globale che ignora le percentuali (ben più basse di quanto si supponga) e i diritti di tutela fino alla condanna certa. Sta di fatto, però, che il crimine di «questi scelerati preti» (l’espressione era nei Ricordi del Guicciardini ma riguardava un altro vizio bollato spesso da papa Francesco, la smania del potere clericale) è ben più grave proprio per la loro identità. L’esame severo è, perciò, più che giustificato, come è stato voluto dagli ultimi due pontefici. Impietosa ed esagerata ma con una sua parziale e terribile verità è l’affermazione che un celebre contemporaneo di Guicciardini, Machiavelli, emetteva nei suoi Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio: «Abbiamo con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo: di essere diventati senza religione e cattivi».

Era l’anticipazione dell’assioma di Bernanos sul prete mediocre o, peggio, perverso, causa di scandalo e di crollo della fede nella comunità ecclesiale. Dicevamo che altri hanno tentato di imitare lo scrittore francese, sia pure a distanze abissali. Il più fine e positivo è stato forse il fiorentino Nicola Lisi col suo Diario di un parroco di campagna (1942), le cui pagine hanno i colori dei «Fioretti» francescani. Recente (2017) è stato un giornalista sportivo, Gianni Clerici, col suo Diario di un parroco del lago, alle prese coi contrabbandieri lariani e con un abbandono finale del ministero sacerdotale.

Sta di fatto che si moltiplicano, accanto ai pamphlet accusatori più o meno scandalistici, i libri che cercano di scavare nella vita standard di un prete per scovarne le crisi, le ombre e le luci. Talora con esiti un po’ banali e di facile consumo: è il caso, ad esempio, del successo registrato dal breve romanzo di un giornalista francese, Jean Mercier, col suo Il signor parroco ha dato di matto (San Paolo 2017). Il titolo dice tutto, perché questo prete, amareggiato dalla superficialità dei suoi fedeli, riuscirà a scuoterli solo murandosi in una cella nel giardino della canonica, con una finestrella minima sulla via che si trasforma in una sorta di inedito confessionale. Qualcosa di simile, ma con diverso spessore tematico, anche perché il racconto è autobiografico e motivato pastoralmente, è alla base della testimonianza di Thomas Frings, parroco a Münster, dal titolo sconsolato: Non posso più fare il parroco.

Infatti, sulla sua pagina Facebook nel febbraio 2016 annunciava di «correggere la rotta», di abbandonare «l’inutile sforzo» di un ministero ecclesiale sclerotico e senza sussulti spirituali nei fedeli: si sarebbe ritirato per un periodo di congedo e riflessione in un monastero benedettino. A questo punto la sua lunga sequenza critica nei confronti di una grigia e stantia missione pastorale quotidiana, narrata con icasticità e persino con ironia, diventa paradossalmente uno squillo di tromba. Altri sacerdoti e fedeli raccolgono la provocazione perché si ritrovano riflessi in quel ritratto e, così, don Thomas riprende un diverso ministero tra monastero, comunità esterne e interventi pubblici. Si potrà anche discutere su molti aspetti, ma la sua è una radiografia che rivela la carie di uno scheletro secolare che ha bisogno di nuova linfa, soprattutto in questa Europa così secolarizzata, soprattutto se si vuole rispondere all’interrogativo iniziale del titolo tedesco Aus, Amen, Ende? («Fuori, amen, fine?»).

A questo punto può essere accostata la voce di un altro sacerdote più ottimista, il bergamasco Giulio Dellavite, che sceglie di camminare sul crinale delicato di due generi, il narrativo e il saggistico. Il titolo può impressionare solo chi non ha assuefazione col linguaggio biblico: Se ne ride chi abita i cieli è una frase del v. 4 del Salmo 2 che, con un antropomorfismo, raffigura un Dio piuttosto sarcastico nei confronti dell’agire umano contro di lui e del suo Messia. Da un lato, dunque, c’è il registro narrativo del manager con l’auto in panne che, in una serata uggiosa, chiede soccorso bussando a un monastero isolato, con una serie di successivi colpi di scena.

D’altro lato, c’è il dialogo coi personaggi di quel piccolo mondo, dall’abate al portinaio, dal bibliotecario all’ortolano e così via, in un ramificarsi progressivo di temi che si aggirano nelle pianure dell’esistenza ma che si inerpicano anche sui sentieri d’altura della riflessione morale e teologica. Si delinea, così, un sorprendente contrappunto in cui i ruoli possono invertirsi quando ci si avvia sulla strada della ricerca di senso. Certo, il monaco sembra avere più da dire e da offrire, tant’è vero che il manager scopre squarci inediti dell’essere e dell’esistere, e soprattutto si accorge di dover rettificare proprio quel patrimonio di leadership che inalberava come suo vessillo. Tuttavia anche il religioso non uscirà indenne da questo lungo dialogo che è sostanzialmente un saggio sul potere come servizio, tant’è vero che in finale si elencano le fonti del magistero di papa Francesco adottate come tessuto delle pagine di quel confronto vivace, spirituale ma non clericale, intellettuale ma non astratto, realistico ma non superficiale.

GIANFRANCO RAVASI

Thomas Frings, Così non posso più fare il parroco, prefazione di Tullio Citrini, Ancora, Milano, pagg. 164, € 19,00.

Giulio Dellavite, Se ne ride chi abita i cieli. L’abate e il manager: lezioni di leadership fra le mura di un monastero, Mondadori, Milano, pagg. 220, € 18,00.

Pubblicato col titolo: Il gran coraggio di fare il parroco, su IlSole24ORE, n. 75 (17/03/2019).