IL MITO

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Pur nella loro netta diversità, sono stati entrambi due figure capitali nella cultura del Novecento. Ho avuto la fortuna di incontrarli e di dialogare con loro e ora li ritrovo insieme in libreria, mentre aggrediscono la scalata di una vera e propria altura tematica, preceduti e seguiti da una legione di studiosi. Sto parlando di Julien Ries, storico ed ecclesiastico belga, creatore dell’antropologia religiosa fondamentale, nato nel 1920, docente a Lovanio, autore di un’intera biblioteca di saggi, guida di una folla di discepoli, creato persino cardinale da Benedetto XVI e morto nel 2013. A lui s’accosta, con una fama ancor maggiore, Raimon Panikkar, nato a Barcellona nel 1918, anch’egli sacerdote, creatore instancabile di ponti tra culture e fedi, tra discipline eterogenee, tra le tradizioni più differenti, acclamato a livello internazionale, morto nel 2010 in un villaggio tra le montagne della sua Catalogna, ove si era ritirato custodendo sempre nella sua persona la genesi da madre spagnola e padre indiano.

         Ora, come si diceva, i due studiosi s’incrociano attorno a una categoria fondativa eppure fluida, quella del mito. Tanto per esemplificare, uno studioso, Hans Hübner, elencava ben nove modelli interpretativi, Jan Assmann sette, mentre il più sobrio Ries si accontenta di tre: i miti cosmologici e d’origine, i miti di rigenerazione temporale, i miti escatologici. I riflettori puntati su questa realtà conoscitiva radicale hanno usato sempre fasci di luce policroma: dalle analisi storicistiche a quelle strutturali, dalle prospettive fenomenologiche alle intersezioni transdisciplinari tra filosofia, teologia, storia, antropologia, psicologia, sociologia, linguistica.

         Il paradosso è già nel nucleo iniziale della definizione del mito, scartando ovviamente la nozione popolare di fantasia affabulatrice, sfarfallio di immagini, assenza di sostanza. Lapidario è Ries: «Il mito è un racconto sacro ed esemplare che riferisce un avvenimento del tempo primordiale e fornisce all’uomo un senso determinante per il suo comportamento». Più sofisticato Panikkar: «Il logos cerca un fondamento ultimo e quando crede di averlo intravisto, si ferma. Questo fondamento, che non cerca più un altro fondamento, è il mito». È, quindi, un approdo estremo e supremo, senza un ulteriore «perché?».

         Fermiamoci qui, perché avviarsi su questo sentiero d’altura può creare vertigini. È, perciò, meglio ascoltare le narrazioni di chi si è avventurato fino sulla cima e gode di una certa vista panoramica. Fuor di metafora, si tratta di analizzare i miti che l’umanità da sempre e dappertutto ha elaborato, appunto come fondamento ultimo dell’essere e dell’esistere. Panikkar, come gli è più naturale, ricorre alla mitologia indiana partendo da Prajāpati, il dio per eccellenza e padre delle creature, nella cui opera s’insinua il dolore visto come pena di una colpa (facile è l’accostamento al paradigma biblico del peccato d’origine). Altri miti fioriscono proprio dalla condizione umana attraverso una ramificazione di «mitemi» (morte, vita, trascendenza) e il rimando all’uomo primordiale. Curioso è nell’India il ricorso all’incesto come simbolo di redenzione.

         È a questo punto che l’analisi di Panikkar s’allarga verso le ulteriori e correlate regioni, immense e affascinanti, del simbolo e del culto. Di diversa tonalità ma per certi versi parallelo è il percorso di Ries e del manipolo di una dozzina di suoi collaboratori. Il taglio è ora più didascalico e si avvale – come spesso accade nei volumi della Jaca Book – di un mirabile apparato iconografico. Anche nella ricerca dello studioso belga e dei suoi discepoli l’attenzione si focalizza sui miti cosmogonici con un apparato simbolico imponente: dal caos acquatico ai mostri, dalla montagna cosmica al cielo, dall’uovo primordiale alla coppia primigenia.

         Lo sfrangiarsi delle civiltà riesce a declinare il mito in tipologie nuove, da Sumer alla Bibbia, dall’Egitto a Omero, dalla classicità greco-romana alla Cina antica, transitando ancora una volta nel mito hindu e approdando alle tradizioni mesoamericane e africane. Un arcobaleno policromo ove le metafore celano interrogativi radicali che, anche in questa sequenza, toccano le questioni a cui sopra si accennava: vita e morte, tempo e spazio, colpa e giudizio (come non pensare al diluvio?), trascendenza e cosmo, ritmi animali e vegetali, sessualità e sacralità e così via.

         A margine di questo dittico di ricerche, che vedono come protagonisti Ries e Panikkar e che offriranno ai loro lettori un’esperienza straordinaria di ritorno alle radici sempre vive delle nostre culture, evochiamo solo una particolare inversione di discorso nel cristianesimo. Nel Novecento una delle figure più controverse ma anche «inevitabili» della teologia è stato il tedesco Rudolf Bultmann che propose una rasura ermeneutica del messaggio evangelico capace di abbattere tutti i miti che apparentemente vi allignano. È la famosa «demitizzazione», che è praticata ancor oggi in modo forse grossolano da alcuni autori, ma che – con tutte le necessarie riserve avanzate dai teologi attuali – ha un suo valore per far brillare la singolarità dell’evento cristiano, anche quando è rivestito di forme mitico-simboliche. Infatti, la storicità di quell’evento era stata classificata come mito da Bultmann, mentre in realtà ne era un’alternativa.

GIANFRANCO RAVASI

Raimon Panikkar, Mito, simbolo, culto, Jaca Book, Milano, pagg. 445, € 30,00.

Julien Ries (a cura di), Il mito, Jaca Book, Milano, pagg. 283, € 50,00.