CORPOREITÀ

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Nelle Tusculanae Cicerone lo definiva imago mortis; gelidae mortis imago ribadiva Ovidio negli Amores, «particella di morte» era per Leopardi, «fratello della Morte» secondo Shelley e così via in un lungo elenco funereo che approda alla requies aeterna cristiana. Stiamo parlando del sonno, un’esperienza che intreccia in sé fisiologia e simbologia e persino teologia, tant’è vero che la risurrezione di Cristo è espressa col verbo eghéirein, «risvegliarsi», un termine che risuona 144 volte nel Nuovo Testamento. Per molti l’insonnia è un incubo sul quale sembra echeggiare il celebre monito di Calaf, il figlio del vecchio re tartaro Timur, nella Turandot pucciniana: «Nessun dorma! Nessun dorma!» (atto III).

         C’è, però, anche un filo luminoso ininterrotto che esalta «il sonno innocente, che pettina e ravvia il filaticcio di seta arruffato delle preoccupazioni di quaggiù…, bagno ristoratore del faticoso affanno, balsamo alla dolente anima stanca, piatto forte alla mensa della grande Natura, nutrimento principale nel banchetto della vita», come confessa colui che l’ha perso, il Macbeth shakesperiano (atto II). All’intreccio tra sonno e fede il teologo Giovanni Cesare Pagazzi ha dedicato un delizioso libretto, tutto intarsiato di evocazioni bibliche – come si evince dal titolo In pace mi corico, citazione del Salmo 4,9 – ma anche letterarie e persino popolari: ninnananna, la notte porta consiglio, cascare dal sonno, morto di sonno, chi dorme non piglia pesci…

         A proposito di quest’ultimo detto, è curioso notare che l’insonnia in greco è agrypnía che unisce in sé l’ovvio hýpnos, «sonno», ad ágra, «pesca»! Il testo di Pagazzi si trasforma, così, in una sorta di racconto ove tutte le categorie teologiche si colorano di iridescenze quotidiane. Persino il sonno e la veglia di Gesù, ereditati forse dal padre legale Giuseppe, uomo di visioni notturne, sono ritratti come in un dipinto di Chagall, nell’atmosfera delle vie di un villaggio o della casa in cui a sera ci corichiamo. Eppure la lezione finale è religiosa e approda ancora alla fiducia del Salmista: «Non abbandonerai la mia vita negli inferi», ossia nel sonno mortale, ma «mi indicherai il sentiero della vita» (16,10-11).

         Questo segno così carnale e spirituale al tempo stesso ci spinge ad allargare lo sguardo sulla corporeità e la sua carica simbolica. Così, scegliamo un altro libretto molto vivace che propone un gesto rarefatto ai nostri giorni anche nel culto, l’Inginocchiarsi, un testo infilato in una collana destinata a snodarsi in una serie di volumetti che tratteggiano tanti nostri atti fisico-simbolici quotidiani. Esso è scritto a quattro mani da due domenicani: il frate Alberto Fabio Ambrosio, che sorprendentemente finora ha testimoniato un’alta competenza nella letteratura turca mistica e lo studio antropologico del fenomeno «moda», e suor Catherine Aubin che ha già pubblicato un Pregare col corpo. È curioso notare che nell’ebraico biblico il verbo della benedizione barak rimanda proprio al ginocchio, usato però come eufemismo per alludere ai genitali: la divinità «benedice» il suo fedele donandogli fecondità familiare e fertilità agraria.

         L’atto in queste pagine viene studiato nella pratica storica e nella prassi rituale ove rivela un ventaglio di significati, dall’adorazione alla supplica, dalla consapevolezza della propria creaturalità rispetto al Creatore, all’attesa fiduciosa e all’umiltà. Certo, l’ambiguità del gesto è nota perché può essere segno di oppressione e persino di prevaricazione: pensiamo all’uccisione dell’americano George Floyd sotto il ginocchio brutale del poliziotto bianco nel 2020 a Minneapolis. Ma i due autori sanno celebrare in modo efficace la grandezza di questa posizione, segno apparente di debolezza. Suggestive sono le tre voci finali convocate. Madeleine Delbrêl: «pregare in ginocchio e lasciarsi visitare»; Clive Staple Lewis: «pieno di gioia nell’inginocchiarsi»; Simone Weil: «obbligata a inginocchiarsi» durante un suo pellegrinaggio ad Assisi.

         È, quindi, scontato che nella cultura ebraico-cristiana corpo e anima siano tra loro compatti, a differenza della dissociazione platonica: nella Bibbia l’ebraico nefesh e il greco psyché, i due termini tradotti di solito con «anima», in realtà definiscono l’essere vivente nella sua pienezza psico-fisica. In questa linea è interessante un altro volume scritto a quattro mani da un medico, Carlo Alfredo Clerici, e da un sacerdote, Tullio Proserpio, una sorta di dialogo tra clinica, psicologia, spiritualità e pastorale, che si onora anche di una prefazione di papa Francesco.

         Le pagine scorrono intrecciando costantemente terapia e approccio umano e religioso, per dirla all’inglese il to cure s’incrocia col to care. Come suggeriva Susan Sontag nel titolo stesso della narrazione autobiografica di malata di cancro, la «malattia è una metafora» dell’esistenza umana, del suo limite creaturale, della sua apertura all’altro. L’assistenza sanitaria dev’essere accompagnata da una vicinanza personale e spirituale; la sofferenza non è mai solo una questione biologica ma esistenziale, non è solo fisiologica ma anche «filosofica», non evoca solo anatomia e terapia ma anche «compassione», non è solo appannaggio della medicina ma è anche un orizzonte percorso dalla fede e dall’amore.

GIANFRANCO RAVASI

Giovanni Cesare Pagazzi, In pace mi corico, San Paolo, pagg. 172, € 18,00.

Alberto Fabio Ambrosio – Catherine Aubin, Inginocchiarsi, Cittadella, pagg. 112, € 11,50.

Carlo Alfredo Clerici, La spiritualità della cura, San Paolo, pagg. 206, € 18,00.