Nella Città in ascolto dei linguaggi dell'Anima

di Aldo Grasso

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Il mondo della comunicazione è al centro di un profondo e radicale cambiamento: il telefono, così come l’abbiamo conosciuto e usato per anni, non è più il telefono; i giornali non sono solo più giornali, stanno mutando pelle e contenuti; la tv non è più la tv; persino il computer presto non sarà più il computer. La digitalizzazione della comunicazione sta portando con sé evoluzioni incredibili sia nelle piattaforme di distribuzione dei contenuti sia nelle modalità di fruizione dei medesimi.

Motore di questa rivoluzione è il fenomeno della convergenza. Che cos’è? Tecnicamente, la convergenza è l'unione di più strumenti del comunicare, una fusione resa possibile dalla tecnologia digitale. Ciascun medium non è più destinato a svolgere un singolo tipo di prestazione, ma è in grado di diffondere diversi contenuti (fotografia, radio, conversazioni telefoniche, tv, musica). Convergenza significa utilizzare una sola interfaccia (il computer, per esempio) per molti servizi informativi, passare cioè dalla visione di una serie tv a un’operazione bancaria, dalla lettura di un quotidiano alla sorveglianza di un angolo della casa. Ma convergenza significa anche che il futuro della comunicazione è qualcosa che va ben oltre la comunicazione e coinvolge categorie antropologiche. Convergenza è la voce del molteplice, dell'indiscernibile e dell'ibridato. Grazie alla facilità di spostamento, ai flussi migratori, alla globalizzazione, tutto il mondo converge, si mescola, tende al meticciato.

Convergenza significa, in breve, proprio questo: quelli che prima si chiamavano “mezzi di comunicazione di massa” ora si sovrappongono, si mescolano, si combinano, si piegano con maggiore flessibilità alle nostre esigenze temporali, spaziali e d’uso. Chi possiede uno smartphone sa benissimo (non per studio ma per pratica quotidiana) che il “vecchio” telefonino da strumento di comunicazione personale è diventato uno strumento elettronico dove si raduna il nostro essere sociale e la nostra identità individuale e collettiva. Chi frequenta Facebook conosce i pregi e i difetti delle comunità virtuali, ma il fatto più rilevante è che comincia a far parte di una “cittadinanza digitale” che va ben oltre i narcisismi rétro del socialnetworkismo (a metà tra il “saranno tutti famosi” e il “villaggio globale”). L’idea di fondo dei social network è proprio quella di addomesticare il web e restringerlo ai propri bisogni.

La convergenza dei media, dunque, non è un processo solamente tecnologico, o scandito dalla tecnologia. Per allontanarsi da questa visione troppo ingenua e fallace, che fa della tecnica la causa che determina i nostri comportamenti (il modo in cui usiamo i media, in questo caso), Henry Jenkins ha coniato l’espressione “cultura convergente”: un’attitudine culturale che incoraggia gli utenti a interagire con i contenuti, a creare connessioni tra diversi testi, a usare le tecnologie sempre meno come strumenti per comunicare e sempre più come nuovi territori da esplorare.

Che la tecnologia, elemento necessario al cambiamento in corso, non sia tuttavia la sola forza in grado di rivoluzionare comportamenti e “modi di vita” è dimostrato da due semplici considerazioni.

La prima consiste nell’osservare che – accanto alla fioritura di tutti questi nuovi modelli di utilizzo dei media – permangono anche quelli più tradizionali, che affondano le loro radici nella storia dei mezzi di comunicazione: i giornali fatti di carta si continuano a comprare come uno o due secoli fa; per vedere un film su grande schermo è necessario uscire di casa e pagare un biglietto alla cassa; all’interno delle mura domestiche la tv resta il principale passatempo, spesso nella sua versione generalista. Quelle che permangono, in fin dei conti, sono alcune esigenze di fondo che, pur mutando nelle forme e nei contenuti con cui vengono soddisfatte, caratterizzano l’uomo mediatico uscito dalla “modernità” otto e novecentesca. Per esempio, un genere come il reality da una parte soddisfa un’esigenza tradizionale di intrattenimento, dall’altra, invece, per molti si manifesta come un’esperienza di vita.

La seconda considerazione deriva dall’osservazione che, nella società capitalistica, anche la più geniale delle invenzioni deve trovare un mercato per diffondersi: deve cioè intercettare o quantomeno generare dei bisogni. L’industria culturale si attiva solo se le sue produzioni sono economicamente sostenibili. Invenzioni come iPod e iTunes hanno rivoluzionato l’industria della musica: le case discografiche non sono morte, ma hanno dovuto inventarsi nuovi scenari di business. Nelle redazioni di mezzo mondo si fanno esperimenti di interazione tra carta e on line, si cercano soluzioni per fare pagare i contenuti senza perdere lettori. La nuova frontiera dell’editoria è sicuramente l’e-book: dal lancio di Kindle di Amazon e dalla presentazione dell’iPad di Apple, tutta la filiera dell’editoria sta cercando di cambiare i propri connotati e di ridefinire il ruolo dell’autore e del lettore.

Considerata l’importanza e la pervasività dei mezzi di comunicazione nella società contemporanea, e il fatto che i media non sono solo semplici protesi, ma piuttosto ambienti in cui siamo immersi, il mutamento in corso è totalmente culturale.

Da almeno trent’anni, molta parte della nostra vita sociale si svolge con l’apporto attivo della tv, anche se oggi la tv generalista resta il terreno d’elezione solo per le persone meno attrezzate culturalmente; per le altre c’è Internet. Una volta era facile distinguere fra realtà e rappresentazione, ma da tempo i media costituiscono i nostri nuovi ambienti di socializzazione, “luoghi” frequentati da noi quotidianamente e in cui impariamo a comportarci, a ripetere frasi sentite, a imitare modelli di comportamento. Se una volta, oltre alla famiglia, esistevano alcune istituzioni che servivano come palestra formativa (la scuola, l’oratorio, il circolo, il servizio militare, ecc), da parecchi anni la tv si è mangiata questi “luoghi della memoria condivisa” e ha cominciato a sbriciolare il confine con la realtà. Si chiama esperienza mediale e significa che i media costituiscano forme di esperienza viva e complessa: non solo cognitiva, ma anche emotiva, pratica, relazionale. Se la realtà è percepita soprattutto attraverso la tv, alla fine vale anche il contrario: la realtà tenderà a organizzarsi attraverso format, regole televisive. L’esperienza del reale viene sempre più sottoposta ad un processo di elaborazione, messo in atto da realtà virtuali, che finisce per mutare il nostro modo di percepire le cose. Il problema, se mai, è che questa grande rivoluzione è nelle mani di conduttori senza cultura e senza scrupoli.

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Noi continuiamo a pensare la tecnologia come uno strumento a nostra disposizione, mentre la tecnologia è diventata l’ambiente che ci circonda e ci costituisce secondo quelle regole di razionalità (burocrazia, efficienza industriale, organizzazione del lavoro) che non esitano a subordinare le esigenze proprie dell’uomo alle esigenze specifiche dell’apparato tecnico. Ma, ancora una volta, la tecnologia non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di creatività, non svela verità: la tecnologia funziona e basta. Anche in tv c’è il rischio che la tecnologia (dal format all’ultimo ritrovato distributivo) si sia innamorata di se stessa, si autopotenzi di continuo (pensare queste cose non significa necessariamente esprimere diffidenze tecnofobiche, significa semplicemente esprimere il limite della tecnologia nel processo della creatività).

Siamo diventati una generazione multitasking.
 Mentre lavoriamo al computer e la tv è accesa, all’improvviso squilla il cellulare (riconosciamo la suoneria perché riproduce le note della nostra canzone preferita appenda scaricata da Internet), che segnala anche la presenza di un Sms.

Il multitasking é quell'abilità che specie gli adolescenti hanno di svolgere contemporaneamente più attività, di stare in una flagranza di mezzi e linguaggi con disinvoltura e quasi felicità. Hanno un cervello diverso dal nostro? È ipotizzabile un diverso processo di apprendimento?

Attenzione frammentata, difficoltà della memoria in un'era di flusso continuo di informazioni e stimoli: questo già lo sappiamo. Ma qualcosa di più fondamentale, genetico addirittura, che trasformerà i processi stessi dell'apprendere e ragionare è ipotizzabile? Da un lato c’è l’idea entusiastica che le nuove generazioni siano “naturalmente” predisposte all’uso di Internet e più competenti degli adulti; dall’altro, i discorsi sulle nuove tecnologie assumono spesso la forma di “media panic”, quella tetra convinzione che le tecnologie online rappresentino una minaccia allo sviluppo socio-cognitivo dei ragazzi.

La verità è che oggi, nel mondo della comunicazione, si compiono operazioni così vertiginose da essere state vagheggiate solo da qualche scrittore di fantascienza: il primo Macintosh è del 1984, la nascita ufficiale del Web risale al 1991. Nel giro di pochi anni ciascuno di noi può connettersi con il mondo intero, consultare tutto quello che è stato caricato in rete. Convergenza significa anche che da una cultura di tipo verticale (ordinata secondo una gerarchia valoriale) siamo passati a una cultura di tipo orizzontale (ogni contenuto è immediatamente disponibile) basata più sulle associazioni, sui link, sui liberi collegamenti che sulla tradizionale trasmissione del sapere. Noi siamo cresciuti con un concetto di trasmissione del sapere di tipo verticale, strutturato per gerarchie, articolato secondo una concezione piramidale (il sapere è conquista verso l’alto). Il Web ha reso orizzontale buona parte della nostra conoscenza: sulla rete un’opinione vale l’altra, proprio perché è posta sullo stesso piano.

I nuovi media, infatti, conferiscono inevitabilmente a tutti i contenuti che diffondono un peculiare carattere di precarietà ed esteriorità; la loro convergenza assomiglia sempre più a un gioco che urta contro i canoni tradizionali dell'esperienza estetica o informativa. Il ritmo incalzante che ci impongono costringe la nostra mente ad adeguarsi, sempre precariamente e provvisoriamente (come nei giochi), a continue novità, a paesaggi sempre diversi.