Un’apologetica e una teologia fondamentale rinnovate per il dialogo con i non credenti

Mons. Bruno Forte

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            “Le persone religiose parlano di Dio quando la coscienza umana è giunta al limite (talvolta per pigrizia di pensiero) oppure quando le forze umane vengono meno...; ma questo sistema funziona solo finché gli uomini riescono con le loro energie a spingere più avanti i limiti e Dio diventa superfluo come ‘deus ex machina’... Io vorrei parlare di Dio non ai confini, ma nel centro, non nella debolezza, ma nella forza, non nella morte e nella colpa, ma nella vita e nella bontà dell'uomo... La chiesa non risiede là dove la capacità dell'uomo non ce la fa più, ai confini, ma in mezzo al villaggio” (D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, Milano 1969, 215s). Queste parole, scritte in un tempo in cui la coscienza credente sembrava sperimentare nella tragedia dell'Olocausto l'esilio e il silenzio della Parola, tracciano un programma, al quale è giusto attenersi anche in altre stagioni, per chi voglia seriamente rispondere alla domanda: che senso ha la parola della fede oggi? La Parola ha voluto risuonare nelle parole del nostro linguaggio: non altrove, ma nella storia, non ai margini, ma in mezzo al villaggio. È per questo che la fede cristiana non può essere proposta senza in qualche modo “giustificarsi” di fronte al mondo in cui vive: in quanto obbedienza alla Parola risuonata nelle parole degli uomini, essa deve parlare al suo tempo, offrendosi sensata per esso. Se non operasse questo sforzo, resterebbe muta ed altro non sarebbe che un'ulteriore forma del silenzio della Parola. Motivando il suo senso, essa apprende il linguaggio degli uomini, parla le parole del tempo, affinché in esse si renda presente la perenne novità del messaggio.

            Parlare il linguaggio del tempo esige tuttavia un caro prezzo: il linguaggio porta in sé lo spessore dell'essere, la corposità della storia. Parlarlo significa farsi carico della vita che circola in esso e non meno della morte e dell'interruzione che lo segnano inesorabilmente. Un pensiero della fede che voglia essere ricco di senso, non potrà allora sottrarsi al peso della vita del tempo in cui è situato, ai sentieri interrotti, come ai compimenti cercati e sperati: “Per cogliere la rosa nella croce del presente, occorre prendere su di sé la croce” (G.W.F. Hegel). In tal senso, la teologia può dirsi “la coscienza infelice della compagnia della fede”. In quanto tale, essa “è consapevolezza delle contraddizioni, ma è al tempo stesso espressione di libertà e tendenza a superarle” (G. Ruggieri, La compagnia della fede, Torino 1980, 5). Essa non fugge la complessità, ma si sforza di stare in essa, sotto il giudizio e col conforto della Parola di Dio. Essa è proposta, proprio in quanto sa farsi domanda e risposta. Essa parla la parola della vita, proprio in quanto sa calarsi nel regno della contraddizione e della morte. Al centro del villaggio c'è il silenzio della chiesa e il chiasso del mercato, la festa della lode e la pesante durezza della bestemmia. Lì è il posto della teologia, serva della Parola detta per noi uomini e per la nostra salvezza. Un pensiero teologico che non sapesse cogliere il nesso dei misteri con la ricerca del senso ultimo del vivere e del morire umano non sarebbe altro che scolastica decadente, formula vuota, ossa inaridite.

            È qui che si coglie in modo nuovo il valore e la forza dell'apologetica: in quanto “parola di risposta”, essa è connaturale a una fede, come quella cristiana, animata dalla passione dell'annuncio, e perciò provocata dalla varietà delle situazioni e delle culture: “Non vi sgomentate, né vi turbate, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi”  (1 Pt 3,15). Da che è risuonata la buona novella ed alcuni cuori si sono aperti ad essa, vi è stata anche inscindibilmente la fatica di render ragione della speranza che cambia il mondo e la vita. Il rifiuto di ogni apologetica equivale in tal senso al rifiuto di ogni slancio missionario. Se una diffidenza è nata e si è diffusa, essa riguarda il modo di fare apologetica, in cui l'interlocutore della parola di risposta non è più contemporaneo, ma appartiene definitivamente al passato. Il problema non è allora quello di rifiutare l'ansia apologetica del credere cristiano, ma di viverla nella verità con spirito e cuore di fronte agli interrogativi, alle speranze e ai dolori del tempo reale. Solo a queste condizioni l'apologetica può assolvere il suo compito di rendere significativa la parola di salvezza e motivata la sequela.

            Tre modelli storici di apologetica si lasciano discernere nella recente vicenda del dialogo fra fede cristiana e non credenza: in primo luogo si offre l'apologetica della oggettività, la cui preoccupazione è quella di difendere e di promuovere i diritti della verità in sé di fronte alla mutevolezza dei tempi. Animata da una grande fiducia nella razionalità e nella sua capacità dimostrativa, questa forma ha come interlocutore privilegiato il razionalismo dell'epoca moderna, al quale intende mostrare la plausibilità dell'esperienza religiosa, della sequela cristiana e della confessione cattolica (“demonstratio religiosa, demonstratio christiana, demonstratio cattolica”). La forza di questo tipo di apologetica sta nella dignità che essa attribuisce al conoscere umano: la sua debolezza sta nel trascurare i diritti della soggettività, al punto da difendere una verità, che sembra talvolta non avere più alcun senso per il suo destinatario. È anche in reazione a questa forma che si è venuta delineando un'apologetica dell'immanenza o della soggettività: essa non intende reclamare in astratto i diritti della verità, ma si sforza di cogliere i dinamismi profondi che aprono il cuore dell'uomo all'accoglienza di essa. Più che dimostrare il vero, essa vuole risvegliarne la nostalgia e la ricerca nello spirito umano: assumendo come interlocutore 1'antropocentrismo compiutamente proposto dalla rivoluzione kantiana, questo tipo di apologetica vuole decifrare il “punto d'inserzione” della buona novella dentro il dinamismo spirituale dell'uomo. Sia che si tratti dello slancio vitale (M. Blondel), sia che si evidenzi 1'autotrascendenza di colui che è strutturalmente 1'“uditore della parola” (K. Rahner), questa figura apologetica presenta una marcata accentuazione della dimensione esodale dell'esistenza, dell’uscire-da e dell'andare-verso dell'uomo, che invocano una risposta più grande. La sua forza sta nell'attenzione prestata al dinamismo esistenziale di apertura alla verità: la sua debolezza sta non tanto nel trascurare i diritti dell'oggettività, quanto nel figurarsi uno spirito umano astratto, non “impigliato in storie” (W. Schapp), e perciò tale da apparire lontano e insignificante, o peggio da essere identificato con le forme più generiche dell'esistere umano (come finisce con l'accadere nelle avventure del “cristianesimo anonimo”, dove l'essere cristiani viene assimilato ad una piuttosto indeterminata esistenza “aperta”). Nel momento in cui ci si sforza di tenere insieme i diritti della verità e l'autenticità della ricerca esistenziale, si profila una terza forma di apologetica, che si potrebbe chiamare dell'esodo e dell'avvento: essa si rivolge alla concretezza storica, dove la verità non vive in sé e dove nessun uomo è un'isola, ma dove - nella densità del linguaggio e nella ricchezza della vita - può realizzarsi l'incontro, che schiude il cuore dell'uomo alla verità e la verità al cuore dell'uomo. Questa apologetica dell'incontro non rinuncerà alla consistenza della verità, ma non salterà neanche sulla resistenza della libertà umana: essa si sforzerà di cogliere la verità come avvento, nel venire a noi della Parola, e l'esistenza umana come esodo, nel permanente andare che è la vita, per rendere l'una significativa per l'altra, l'una accessibile all'altra, in un reciproco inquietarsi e fecondarsi, che non sacrifichi la dignità né dell'una né dell'altra. Sarà, in tal senso, un pensiero della compagnia della vita e della fede, in cui la teologia non verrà a proporsi nella solitudine di uno spirito aristocratico, né nella pesantezza scevra di passione di una cattedra, ma nel mezzo del villaggio, al centro della storia (cf. in tal senso la ricerca di J.B. Metz, La fede nella storia e nella società, Brescia 1978). Questa forma di apologetica sarà il pensiero dell' “accondiscendenza” (“synkatàbasis”) di Dio nei confronti dell'uomo - secondo lo spirito dei Padri greci -, ma anche della nostalgia del Totalmente Altro, che è nel cuore dell'uomo - secondo 1'agostiniano “fecisti cor nostrum ad Te” -, e delle tante storie di sofferenza e di incompiutezza, che nella loro infinita dignità sono piene di domande aperte e di tesori nascosti. Senza questa apologetica la teologia non apparterrebbe più al mondo del linguaggio, risolvendosi in esile chiacchiera o in silenzio, dovuto non ad un più alto parlare, ma solo ad un nudo e vuoto tacere.

          Per tentare una simile apologetica è necessario porsi la domanda sul senso che può avere il pensiero della fede, e ciò non solamente a partire dall'uomo, bensì anche a partire da Dio. La sfida del senso è posta cioè insieme dal movimento esodale che è l'umana esistenza (esistere è “star fuori”...), e dal movimento dell'avvento, per cui la Parola viene a riempire e turbare il nostro silenzio. Questa sfida riguarda contemporaneamente il senso di Dio per l'uomo, nella sua dimensione personale come in quella storico-sociale, ed il senso dell'uomo per Dio, per quanto ci è dato coglierlo nella Parola di rivelazione: ma riguarda anche e propriamente il senso del nostro parlare di Dio e dell'uomo, il senso cioè di quel pensiero dell'esodo e dell'avvento e del loro incontrarsi nella croce e resurrezione del Crocifisso, che è la teologia cristiana. In altri termini, interrogarsi sul senso della teologia significa interrogarsi sul significato che Dio e l'uomo hanno l'uno per l'altro, a partire dalla buona novella e dalla concretezza del tempo reale: in quanto è il linguaggio riflesso della fede, della carità e della speranza, la teologia è sensata nella misura in cui sono sensate queste dimensioni dell'incontro fra il vivere umano e la Parola di Dio. L'apologetica della fede e l'apologetica della teologia vengono a identificarsi nell'orizzonte della stessa domanda: che senso ha parlare del Dio cristiano agli uomini di oggi? Esse rinviano ad una medesima ricerca di risposta, che sia tentativo di portare alla parola contemporaneamente l'esodo e l'avvento, tenendo conto di una triplice sfida: quella che proviene dai contesti dell'odierna situazione storica del cristianesimo; quella che nasce dal cuore dell'uomo, incamminato fra la morte e la vita; quella che muove dallo stesso rivelarsi di Dio. Se la sfida dei contesti e quella dell'umano registrano il movimento esodale dell'esistenza collettiva e personale, la sfida di Dio sta a dire il dinamismo suscitato nella storia dall'esperienza dell'avvento. Fra esodo e avvento la teologia – nella sua esigenza fondativa, così necessaria nel dialogo con la non credenza - viene a proporsi come parola non ai margini, ma nel mezzo del villaggio: veramente “teologi si diventa vivendo, anzi morendo e prendendo posizione, non riflettendo, leggendo o speculando” (Lutero, Operationes in Psalmos: WA 5,163). E se questo sembrasse non giustificare la teologia da una parte di fronte alle pretese di un'ermeneutica storico-universale, attenta - in verità, piuttosto idealisticamente - a cercare un senso complessivo della storia e a dare una risposta totale misurata sulle esigenze di una presunta ragione adulta, e dall'altra di fronte ad una lettura trascendentale, che prende le mosse da una struttura antropologica universale, piuttosto astratta e vuota della concretezza della storia, ne risulterà per la proposta di un'apologia dell'incontro dell'esodo e dell'avvento un carattere più evidente di debolezza e di umiltà, che tuttavia sembra renderla tanto più concreta e credibile per gli uomini schiacciati sotto il peso delle inaudite contraddizioni della vita o titanicamente eretti fra il vento e il sole, e per gli stessi credenti, ai quali la forza della Parola ama offrirsi nella debolezza e la promessa del compimento rivelarsi nella interruzione... Che questa apologia sia poi troppo connessa all'ora presente e perciò non abbastanza universalmente valida e sicura, è un dato che ne dimostra la volontà di parlare a degli uomini concreti, a delle storie vere: “Una giornata è abbastanza lunga per conservare la fede: l'indomani avrà i suoi propri problemi” (D. Bonhoeffer, La vita comune, Brescia 1969, 97).