Quale linguaggio deve adottare la Chiesa per parlare al cuore degli uomini privi di riferimenti religiosi?

S.Em. il Card. Cormac Murphy-O'Connor, Arcivescovo di Westminster

Mi è stato Chiesto di rivolgervi alcune parole riguardo al linguaggio dell’evangelizzazione in una società che ha perso la capacità di prestare attenzione alle semplici parole. Ciò che vorrei fare in questi pochi minuti è di parlare dei cinque linguaggi e potremmo usare, e che di fatto usiamo, per trasmettere la Buona Novella del Vangelo agli uomini e alle donne di oggi. Essi sono: il linguaggio della testimonianza, il linguaggio dell’amore o solidarietà, il linguaggio del genitore amorevole, il linguaggio simbolico dei sacramenti, il linguaggio silenzioso della contemplazione.

Innanzitutto il linguaggio della testimonianza: non c’è dubbio che la testimonianza di un singolo cristiano o di un gruppo di cristiani sia il modo più forte di comunicare la Buona Novella dell’amore e del perdono di Dio e del Suo regno. Nei miei trent’anni da Vescovo ho sempre consigliato ai cattolici di rendere testimonianza non soltanto come individui, ma anche in piccole comunità. Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono lì in mezzo a loro, ci dice Gesù. Queste piccole “cellule” della presenza di Cristo rappresentano una testimonianza potente e danno forza a coloro che si rivolgono al nostro mondo incredulo. È essenziale pertanto rendere testimonianza di fede e solidità accompagnata ad un senso di appartenenza alla Chiesa.

Il secondo linguaggio è quello dell’amore o solidarietà. Sono recentemente tornato da un viaggio nello Zimbabwe, dove esiste una situazione di profonda miseria e povertà. Ho visitato persone affette da HIV/AIDS; persone soggette a depressione e vittime del malgovemo, tra le quali serpeggia una sensazione di disperazione. Ma è proprio lì che ho visto l’espressione più forte della comunità cattolica, nella cura dei malati, dei poveri e dei diseredati. Uno dei religiosi, impegnato nella cura di persone affette da HIVIAIDS, mi ha detto: “La situazione è disperata. L’unica risposta è l’amore. Ed è ciò che noi cerchiamo di trasmettere”. Questo è il più forte dei linguaggi, ha commosso me ed altri, e risuona come autentico laddove si manifesta l’amore cristiano. Non a caso il Santo Padre ha espresso questi sentimenti in modo così commovente nella sua enciclica Deus Caritas est, perché laddove ci sono amore e cure amorevoli, lì c’è Dio. Questo è il più grande dei linguaggi.

Il terzo linguaggio è quello del genitore paziente e amorevole le cui braccia sono sempre aperte ed accoglienti, non solo per i poveri e i diseredati, ma anche per i figli che hanno smarrito la retta via, per i peccatori. Mi piace molto la tradizione in vigore in alcuni monasteri ortodossi dove, dopo la preghiera notturna, ogni monaco va a inginocchiarsi di fronte all’Abate e questi bacia il capo di ciascuno come segno di perdono, accettazione e amore. Mi sembra che questo sia ciò di cui hanno più bisogno gli uomini e le donne dei nostri paesi, particolarmente in Europa. Sembra di vivere in un mondo senza un padre, dove tutti cercano accettazione, perdono e amore. Questo è anche da associarsi al linguaggio di una forte famiglia cristiana. Ricordo di essere stato intervistato anni fa per un programma riguardante la Chiesa cattolica diretto da due persone né particolarmente cristiane, né cattoliche. Ma quando andò in onda il programma notai con interesse che ciò che loro trovarono di maggiore rilevanza della Chiesa cattolica erano la testimonianza di una forte famiglia cattolica con tutti i valori che incarnava nella testimonianza delle comunità, in particolare quella dei Piccoli Fratelli di Charles de Foucauld. Si trattava del linguaggio della famiglia, quello della piccola comunità discreta, che è molto pregnante.

Poi c’è il linguaggio dei sacramenti, che si rivolgono simbolicamente alle genti di ogni cultura, di ogni epoca e di ogni estrazione sociale. È il motivo per cui la liturgia è il linguaggio fondamentale della nostra fede. Il modo in cui celebriamo, per esempio, il sacramento del battesimo, come accoglienza di una nuova persona, bambino o adulto, nella famiglia della Chiesa può essere di forte impatto emotivo. Recentemente, al rito dell’Elezione, che rappresenta parte dell’itinerario di iniziazione cristiana per gli adulti, nella prima domenica di quaresima, ho accolto circa 700 persone incamminate lungo il cammino verso la piena comunione con la Chiesa nel tempo di Pasqua. In quel contesto, i segni di accettazione e gioia espressi non solo da coloro che venivano ricevuti ma dall’intera congregazione erano palesi. Credo che fosse Karl Rahner che una volta disse che era meglio accogliere un nuovo convertito che conservarne dieci. Ritengo che ciò che volesse dire fosse che l’ammissione di nuovi convertiti alla fede rappresenta una forte sfida in questo mondo scettico. Nel mio paese è stato interessante notare che l’ingresso di Tony Blair nella piena comunione con la Chiesa ha fornito a molti l’occasione di domandarsi perché lo facesse. Perché un uomo così immerso nel mondo della politica sente il bisogno di essere in piena comunione con la Chiesa di Cristo? È stata a suo modo una testimonianza interessante e abbastanza profonda. Ogni sacramento pertanto, e particolarmente la Santa Eucaristia, se celebrata con fede, riverenza e coscienza del suo valore simbolico, può essere il linguaggio più potente della Chiesa.

L’ultimo linguaggio che vorrei evocare è quello della contemplazione silenziosa. A me pare che dovremmo fare molto di più nella Chiesa per quanto riguarda l’insegnamento della preghiera. Molti trovano le nostre comunità parrocchiali poco stimolanti, e sentono che non contribuiscono a “l’elevazione nella mente e del cuore a Dio”. C’è un grande tesoro di spiritualità cristiana che dovremmo mettere a disposizione del nostro popolo cattolico in modo che non debbano cercarlo altrove in forme di pseudo spiritualità esoterica di scarsa utilità.

In conclusione, parlando particolarmente della cultura occidentale, ritengo che dobbiamo accettare il fatto che la società secolarizzata in cui viviamo non è da condannarsi ma, come Paolo nell’Areopago, va vista come un luogo dove si può essere presenti come lievito, come la luce che risplende nel buio. Non dobbiamo lamentarci troppo riguardo alla società secolarizzata, ma invece acquistare coscienza del fatto che si tratta di una sfida per ciascuno di noi. Una sfida nel cercare nuovi linguaggi attraverso i quali rendere testimonianza alla Buona Novella del Vangelo. Questa non è l’epoca sbagliata per essere cristiani o cattolici. È l’epoca in cui Dio ci chiama a compiere nuovi sforzi e a trovare nuove opportunità per mostrare agli uomini e alle donne del nostro tempo che essi sono amati, perdonati, accettati da Dio, Padre del nostro Signore Gesù Cristo.