È una provocazione simpatica quella che mi rivolge una lettrice dell’Espresso che da Modena mi scrive: «Lei che tanto si appassiona per le ragioni di noi atei, metta le carte in tavola e provi a elencare qualche nome di ateo verace, e non “troppo poco ateo”, come Lei ha classificato alcuni esponenti dell’“ateismo popolare dello sberleffo irreligioso”, sempre per ricorrere a espressioni da Lei usate». Proverò a rispondere a questa richiesta così concreta, scartando figure contemporanee, che pure ci sono, e rifugiandomi in una sorta di pantheon dell’ateismo “classico” (il termine “pantheon” è in questo caso un po’ paradossale!).

         Inizio questa esemplificazione, non certo sistematica, con l’“imponente” figura di Albert Camus. Confesso di non essere uscito indenne ogni volta che ho preso in mano i suoi scritti, a partire dalla Peste fitta di artigli “ateologici”. Ma ogni suo testo è emblematico: tanto per fare un esempio minore, si provi a scoprire il Dio sconcertante criptato sotto il vecchio cameriere sordomuto nel Malinteso. Oppure, in queste settimane che hanno visto la “gloria” di Giovanni Paolo II, cercare di capire cosa significhi il quesito di Camus: «Come è possibile essere santi senza Dio? È questo uno degli interrogativi più importanti dell’esistenza».

         Scegliamo a caso un altro nome. Quest’anno ricorre il centenario della nascita di Emile Cioran, autore franco-rumeno un po’ sconvolgente, che nella sua ideale carta d’identità aveva segnato: «Della razza degli atei», ma che confessava: «Mi sono sempre aggirato attorno a Dio come un delatore: incapace di invocarlo, l’ho spiato… Il campo visivo del cuore è: il mondo, più Dio, più il Nulla, Cioè tutto». E a noi teologi aveva inferto questa frustata: «Quando si ascolta Bach, si vede nascere Dio. Dopo un oratorio, una cantata, una “Passione”, Dio deve esistere. E pensare che tanti teologi e filosofi hanno sprecato notti e giorni a cercare prove dell’esistenza di Dio, dimenticando la sola!».

         E qualche personaggio italiano che sia un ateo verace? C’è solo l’imbarazzo della scelta. Quasi a caso propongo il poeta Giorgio Caproni, il quale era convinto che «la morte è un trapasso. Certo: dal sangue al sasso», ma che aveva coniato nella raccolta Muro della terra questa preghiera dell’ateo: «Ah, mio dio. Mio Dio. / Perché non esisti?... Dio onnipotente, cerca / (sfòrzati) a furia di insistere / almeno di esistere». Mi ha sempre interessato anche Ennio Flaiano, agnostico di ottima caratura, che in un testo dalla filigrana autobiografica faceva incontrare Gesù col padre di una ragazza handicappata che gli intimava: «Non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami». E nella replica di Cristo, Flaiano offriva una profonda teologia del miracolo: «In verità vi dico: quest’uomo mi ha chiesto ciò che io veramente posso dare!».

L’elenco potrebbe continuare a lungo anche coi nomi dei grandi atei che tutti conoscono e citano, da Marx a Nietzsche, a Gramsci, fino a scienziati come Gould e così via in una vera e propria biblioteca di “ateologia”, ben più impegnativa e seria per noi credenti dei vari libelli contemporanei che aspirano ad essere assegnati a questo genere. Per gli atei autentici la questione “Dio” è seria: con essa non si può scherzare col sarcasmo che si riserva a tesi di cervelli deboli. Anzi, ci si deve confrontare e persino scontrare fino al duello quasi blasfemo: «Quant’è vero Iddio, a Dio / io Gli spacco la Faccia», scriveva ancora Caproni (curiose le maiuscole…). Se non altro perché, come diceva un filosofo non certo molto cristiano come Hume, «gli errori della filosofia sono sempre ridicoli, quelli della religione sempre pericolosi».     

Ciò non toglie che non si debbano incrociare anche le provocazioni ironiche e intellettualmente più modeste dei «troppo poco atei», come ho intenzione di fare in quel “Cortile dei Gentili” che ho costituito – sulla scia di un antico simbolo ebraico – come spazio di “dia-logo”, vale a dire di confronto di lógoi, cioè di discorsi e pensieri. Consapevoli, però, credenti e non, che il rischio più grave – per usare una distinzione di Bernanos – non è l’“assenza”, ma il “vuoto”, ossia l’imperante indifferenza, la superficialità, la banalità, la vacuità, l’amoralità.