I DUE SEPOLCRI APERTI

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Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova.

Se infatti siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione. Lo sappiamo: l’uomo vecchio che è in noi è stato crocifisso con lui, affinché fosse reso inefficace questo corpo di peccato, e noi non fossimo più schiavi del peccato. (Romani 6, 3-6)

            La festa del Battesimo del Signore è una delle rare occasioni dell’anno liturgico in cui non viene proposto, tra le letture bibliche, un testo paolino. Noi, allora, ricorreremo a un brano che sia in ideale sintonia con questa celebrazione e ci affidiamo a un paragrafo di quel capolavoro teologico che è la Lettera ai Romani. Dei 432 versetti in cui essa è stata suddivisa noi ne sceglieremo solo quattro, dal capitolo 6, 3-6. Siamo nel cuore di una possente architettura di pensiero che potremmo quasi definire come “il vangelo di Paolo”. Alla severa e impietosa analisi della radicale peccaminosità e miseria dell’uomo sta per succedere la luminosa e gloriosa descrizione della nostra redenzione operata da Cristo.

            Ebbene, l’Apostolo vede compiersi questo trapasso proprio nel battesimo cristiano. La sua è una suggestiva rappresentazione quasi a dittico. Nella prima tavola c’è la vicenda di Gesù; nella seconda si svolge, in parallelo, l’esperienza del cristiano. Ecco, allora, il sepolcro di pietra in cui viene calato il corpo morto del Crocifisso. Accanto ad esso Paolo tratteggia idealmente il sepolcro d’acqua in cui penetra “l’uomo vecchio”, cioè il “corpo del peccato”, ossia la nostra drammatica situazione di “schiavi del peccato”. Siamo anche noi “crocifissi”, e quindi votati alla morte, e su di noi scende la lastra tombale del giudizio divino.

            Ritorniamo, però, alla prima tavola: il sepolcro di Gesù, all’alba di Pasqua, viene scoperchiato e Cristo sfolgora nella luce della risurrezione, immerso nella “gloria del Padre”. Paolo, allora, nella seconda scena, quella che vede protagonista il battezzato, delinea un netto parallelo: anche il cristiano depone le spoglie della morte e si leva come creatura nuova, redenta, liberata dalla sindone mortuaria del peccato, pronta a «camminare in una vita nuova». Il Cristo pasquale è, dunque, immagine del cristiano battezzato ed è su questo parallelo che possiamo accostare anche i due battesimi di per sé distinti, quello di Gesù al Giordano che oggi la liturgia celebra e il nostro battesimo.

            Certo, Cristo non ha bisogno di essere purificato dal “battesimo di penitenza” impartito da Giovanni Battista: là, sulle sponde del Giordano, egli appare nella gloria pasquale perché la voce celeste lo rivela come “il Figlio prediletto” di Dio (Matteo 3, 17). Ebbene, anche noi, quando usciamo dal lavacro del fonte battesimale, siamo divenuti “figli adottivi” (è lo stesso Paolo a ricordarlo a più riprese nelle sue Lettere) e, quindi, partecipi della sua stessa luce gloriosa. La sintesi finale della nostra riflessione battesimale è tutta nelle parole che l’Apostolo scrive ai Romani: «Se siamo stati intimamente uniti a lui a somiglianza della sua morte, lo saremo anche a somiglianza della sua risurrezione» (6, 5).