MI HAI SEDOTTO

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Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre;

mi hai fatto forza e hai prevalso…

Nel mio cuore c’era come un fuoco ardente,

chiuso nelle mie ossa…

(Geremia 20, 7.9)

 

          Era un giovane timido e sentimentale, nato in un villaggio non molto lontano da Gerusalemme, Anatot. Il suo nome era Geremia e la sua vita era stata sconvolta dall’irruzione della parola divina che lo chiamava ad essere profeta, proprio mentre si trovava nell’orto di suo padre, all’ombra di un mandorlo (si legga il capitolo 1 del suo libro profetico). Ebbene, a distanza di anni, dopo persecuzioni, contestazioni, prove di ogni genere, Geremia lascia sulla pagina tutta la sua amarezza e il suo sconforto.

           Noi siamo andati a cercare proprio il frammento di una sua “confessione”, il più sconsolato, tant’è vero che – se si legge il brano nella sua integrità – si scopre che esso approda al cupo anelito della morte, anzi, al drammatico desiderio di non essere mai esistito. Nelle poche righe da noi citate, dotate di una straordinaria fragranza poetica e intensità umana, ci sono due elementi in tensione tra loro. È quasi un duello che tormenta l’anima del profeta.

          Da un lato, c’è l’evocazione di quel giorno ormai lontano del 626 a. C. in cui il Signore aveva chiamato quel giovane impacciato, piuttosto balbuziente, e l’aveva “sedotto”. L’immagine, a prima vista, sembra essere dolce, portando con sé il profumo della seduzione amorosa. In realtà, è ben più aspra, come Geremia dice subito dopo, quando dichiara in modo sferzante: «Mi hai fatto forza e hai prevalso». È, quindi, non la seduzione d’un innamorato, ma la prevaricazione su un inesperto, quella che noi chiamiamo, nel linguaggio giuridico, la circonvenzione di un incapace. Infatti, la vocazione profetica l’aveva costretto a una vicenda amara, cioè a entrare nel mondo corrotto della politica, alla vigilia della grande catastrofe degli anni 597-586 a. C. quando si sarebbe consumata la tragedia della deportazione a Babilonia, della distruzione di Gerusalemme e del crollo del regno di Giuda.

             L’elezione divina non è, dunque, un privilegio, la missione profetica non è una  carica onorifica, la testimonianza della verità è «come una fiaccola che brucia qualche barba di potente», secondo la curiosa immagine di uno scrittore tedesco del Settecento, Georg Christoph Lichtenberg. D’altro lato, però, la parola divina che ti chiama non può essere spenta dalle proprie lamentele, dagli interessi personali, dal desiderio di dare le dimissioni e ritirarsi a vita privata.

           Ecco, allora, quell’immagine possente: la vocazione divina è simile a un fuoco che pervade le ossa, facendole fremere, è una lava ardente inarrestabile. La potenza della chiamata di Dio spazza via le obiezioni e trasforma l’essere della persona che ne è destinataria. L’aveva detto a Geremia lo stesso Signore in quell’ora lontana, là nell’orto paterno, rivolgendosi a quel ragazzo esitante e debole: «Oggi io faccio di te come una fortezza, come un muro di bronzo contro tutto il paese… Ti muoveranno guerra, ma non ti vinceranno perché io sono con te per salvarti» (1, 18-19).