Nell’ultimo periodo della sua vita, Renato Guttuso che aveva una casa anche a Velate nei pressi di Varese, fu invitato ad affrescare una delle cappelle del percorso che saliva al famoso Sacro Monte di quella città. Gli fu affidata la scena della “Fuga in Egitto”, un tópos dell’iconografia cristologica, ed egli decise di raffigurare Maria, Giuseppe e il piccolo Gesù come una famiglia di profughi palestinesi, spauriti, costretti ad abbandonare la loro casa errando nel deserto (oggi si dovrebbe pensare a quel drammatico esilio in patria che è la situazione degli abitanti di Gaza). Il popolo ebraico, a cui Gesù era legato secondo la carne e il sangue, si autodefiniva nella Bibbia come una comunità di “forestieri e pellegrini”, tant’è vero che aveva codificato questa straordinaria normativa su cui dovrebbero riflettere anche molti legislatori sedicenti cristiani: «Vi sarà una sola legge sia per il nativo sia per lo straniero residente in mezzo a voi… Quando un forestiero dimorerà presso di voi nel vostro paese, non gli dovrete far torto, ma lo tratterete come colui che è nato fra voi; l’amerai come te stesso perché anche voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto» (Esodo 12, 49; Levitico 19, 33-34).

            Ora, se leggiamo i 48 versetti dei primi due capitoli del Vangelo di Matteo, la tradizionale retorica natalizia si sfarina per lasciare intravedere una trama cupa: Gesù nasce in una grotta-stalla, è deposto non in una culla ma in una mangiatoia, si affaccia subito l’incubo di una repressione sanguinaria (la “strage degli innocenti”) e la famigliola deve imboccare la via della clandestinità, riparando nel confinante Egitto. Come è evidente, è tutt’altro che artificiosa l’applicazione delle tormentate storie degli immigrati, dei nomadi, dei clandestini che occupano i nostri giornali alla vicenda del bambino Gesù di Betlemme. Potremmo dire che l’ombra della croce si proietta già sui primi giorni di vita di quel neonato e non stupisce che la scuola pittorica di Novgorod, a partire dal XV secolo, non abbia esitato a unire quei due estremi insanguinati, raffigurando il piccolo Gesù avvolto in fasce funerarie e deposto in una culla a forma di sarcofago!     

            Secoli dopo, un poeta cristiano cinese, costretto anche lui alla clandestinità in quanto  perseguitato, Ai Qing (1910-1996), celebrava con questi versi il Natale del 1936: «Dalla mangiatoia vengono lamenti che strappano il cuore. / Con innumerevoli dita / la folla segna la fanciulla-madre / sprezzata come immondizia, / nessuno è disposto a portarle un catino per il sangue». Il pensiero va a certe madri straniere (ma non solo…) che partoriscono da sole, nascostamente, spargendo il loro sangue per terra e strappando malamente il cordone ombelicale. Lasciamo per ora questi paralleli, che pure dovrebbero far riflettere credenti e agnostici, e ritorniamo al testo matteano che citiamo nella sua essenzialità, lontana mille miglia – come vedremo – dall’enfasi miracolistica dei Vangeli apocrifi.

            «Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo. Giuseppe, destatosi, prese con sé il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» (2,13-15). Queste scarne parole evangeliche sono più preoccupate di offrire un’interpretazione teologica di quella fuga che non di documentarne e motivarne le pur reali componenti storiche (è questa una caratteristica generale dei Vangeli e in particolare dei cosiddetti “Vangeli dell’infanzia di Gesù” presenti nei capitoli 1-2 di Matteo e di Luca). Infatti con la citazione finale desunta dal profeta Osea (11,1) – «Dall’Egitto ho chiamato mio figlio» – si vuole alludere a quell’evento capitale della storia dell’Israele biblico che fu l’esodo dall’oppressione faraonica: Cristo ne ripercorre emblematicamente le tappe, incarnando sofferenza e salvezza, oppressione e liberazione, emigrazione e rimpatrio. Così, più avanti risuonerà in Egitto questo appello rivolto al padre legale di Gesù, Giuseppe: «Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e ritorna nel paese di Israele perché sono morti coloro che volevano la vita del bambino» (2, 20).

            Sullo sfondo storico c’è, dunque, la figura del famoso re Erode, la cui biografia –  che può essere ricostruita attraverso lo storico Giuseppe Flavio – fu scandita da grandi successi politici, ma anche da un implacabile pugno di ferro nel sedare ogni minimo accenno di opposizione. Macrobio, storico romano del V secolo, attribuirà ad Augusto un detto riguardante Erode: presso costui erano più fortunati i porci (non commestibili per gli Ebrei) di quanto lo fossero i figli (in greco le due parole hanno un suono affine), perché Erode aveva liquidato figli, mogli e parenti, sospettati di tramare alle sue spalle. L’Egitto, confinante con la Palestina, costituiva un’ideale terra di esilio: già nel X secolo a. C., l’allora ribelle (e futuro re di Israele) Geroboamo, era riparato là per sfuggire alla polizia di Salomone.

            Detto questo, dovremmo far scendere il sipario sulla vicenda di questo piccolo profugo e della sua famiglia. Ma fin dalle origini la tentazione di rifugiarsi nei cieli dorati del mito, staccandosi dal realismo storico dell’Incarnazione cristiana, era in agguato. Ed ecco sbocciare una fantasmagoria di prodigi che circondano di un alone glorioso quello che in realtà era l’amaro e faticoso sopravvivere di tre clandestini. Pagine e pagine di tanti Vangeli apocrifi, frutto di una costante necessità di decollare dal presente aspro verso le illusioni di facili salvezze, hanno intessuto narrazioni mirabolanti che si sono infiltrate addirittura tra le sure del Corano. Con questi racconti potremmo persino disegnare una sorta di mappa di quella migrazione clandestina: i genitori di Gesù, scartando la cosiddetta “via del mare” che costeggiava il Mediterraneo e superava Gaza – via più breve ma pericolosa a causa di posti di blocco della polizia erodiana prima ed egiziana poi – puntano verso oriente, varcando il Giordano e procedendo dall’attuale Giordania, lungo un complesso itinerario.

            Ancor più minuziosa è la sequenza delle tappe in territorio egiziano: c’è anche l’odierno Cairo (che, tra l’altro, è sede ancor oggi di splendide chiese dei cristiani copti, indigeni dell’Egitto, come dice il loro stesso nome, deformazione del greco Aigyptos), c’è Ermopoli, c’è Assiut e così via. Noi ci accontentiamo ora di offrire solo due esempi di questa narrativa apocrifa in cui l’enfasi del miracolo cancella ogni realismo della storia. Ecco qualche frammento del lungo racconto dei cc. 18-20 del cosiddetto Vangelo dello Pseudo-Matteo (noto già nel IV-V sec.):

            «Giunsero davanti ad una grotta per riposarsi, ma da essa improvvisamente uscirono molti draghi. Gesù allora scese dal grembo di sua madre e stette diritto sui suoi piedi davanti ai draghi: essi si misero ad adorare Gesù e poi se ne andarono via da loro… Così pure i leoni e i leopardi lo adoravano e si accompagnavano a loro nel deserto: ovunque andavano Giuseppe e Maria, essi li precedevano, mostrando la strada e chinando la testa; prestavano servizio facendo le feste con la coda e lo adoravano con grande riverenza… Nel terzo giorno del viaggio, Maria, stanca per il troppo calore del sole e del deserto, vedendo un  albero di palma disse a Giuseppe: Mi riposerò all’ombra di questo albero. Maria guardò la chioma della palma e la vide piena di frutti e disse a Giuseppe: Desidererei prendere i frutti di questa palma. E Giuseppe: Mi meraviglio che tu dica questo vedendo quanto è alta la palma. Io penso piuttosto alla mancanza d’acqua… Allora il bambino Gesù che sereno riposava nel grembo della madre disse alla palma: Albero, piega i tuoi rami e ristora col tuo frutto mia mamma. A queste parole la palma piegò subito la chioma sino ai piedi della beata Maria e rimase inclinata attendendo l’ordine di rialzarsi da parte di Gesù. Costui le disse: Apri con le tue radici la vena d’acqua che è nascosta nella terra. E subito dalla radice cominciò a scaturire una fonte d’acqua limpidissima, fresca e chiara».

            L’altro esempio lo riassumiamo noi dal c. 23 del cosiddetto Vangelo arabo dell’infanzia che ad al-Moharraq, presso l’attuale Assiut (350 km a sud del Cairo), riserva la più sorprendente avventura egiziana di Gesù bambino. Nella notte, alla ricerca di un rifugio, Giuseppe e Maria sono assaliti in questa regione infestata da briganti: gli assalitori sono due banditi, Tito e Dumaco. Tito si commuove subito di fronte a questa povera famiglia, colpito dalla tenerezza della madre e dallo splendore del bimbo. Per poterli salvare dalla rapacità del socio è pronto a offrire 40 dracme dei suoi “risparmi” a Dumaco perchè lasci indenne la famigliola. Come è facile immaginare, i due saranno i compagni di Gesù nella crocifissione, condannati con lui a morte a Gerusalemme dopo varie vicende, e Tito altri non sarà che il buon ladrone a cui Cristo spalanca il Paradiso.

            Siamo, comunque, ben lontani dalla sobrietà dello scarno dettato del Vangelo canonico di Matteo e dalla realtà dei profughi di allora e di oggi. Il cristianesimo ha voluto presentare la vita del suo fondatore, certo, anche nella grandezza del suo mistero, ma celato sotto le spoglie della sofferenza e i cenci della miseria, dalle origini sino al tragico approdo al colle del Golgota nella crocifissione. Il Cristo reale è fratello degli ultimi della terra ed è per questo che aveva ragione Bertolt Brecht (sì, proprio l’ateo drammaturgo tedesco) quando nelle sue Poesie 1918-1933 scriveva i versi del suo “Natale dei poveri”: «Oggi siamo seduti, alla vigilia / di Natale noi, gente misera, / in una gelida stanzetta, / il vento corre di fuori, / il vento entra. / Vieni, buon Signore Gesù, da noi, / volgi lo sguardo: / perché Tu ci sei davvero necessario».