È noto che la Pasqua è l’asse portante del calendario cristiano. In verità, un asse piuttosto mobile, regolato da una norma che si fa in fretta a dire, ma che è ben altra cosa calcolare correttamente: la solennità pasquale deve cadere nella domenica immediatamente seguente al primo plenilunio di primavera e, quindi, non può ricorrere né prima del 22 marzo né dopo il 25 aprile del nostro calendario “gregoriano” (dal nome di papa Gregorio XIII che lo introdusse a partire dal 15 ottobre 1582). Questo computo cronologico è coerente con l’anno solare “tropico”, a differenza di quello “giuliano” (elaborato nel 46 a. C. da Giulio Cesare) che attualmente è in ritardo di 13 giorni rispetto al nostro calendario. Si spiega un po’ anche per questo (ma non solo) la divergenza della Pasqua cattolica con quella ortodossa, e una delle conquiste dell’ecumenismo potrebbe essere proprio l’armonizzazione delle date pasquali che già in passato crearono veementi contrasti tra le Chiese d’Oriente e quelle d’Occidente.

            Ma lasciamo questo terreno piuttosto “tecnico”, che richiederebbe lunghe disquisizioni e fermiamoci innanzitutto sulla qualità “lunare” della nostra celebrazione. Infatti, nella sua genesi remota, la Pasqua si riconnetteva a un arcaico rito nomadico di transumanza che ha lasciato tracce evidenti nella Pasqua ebraica così come è codificata nel capitolo 12 del libro biblico dell’Esodo. Le vesti cinte e il pane azzimo rimandavano alla trasmigrazione; l’agnello sacrificale dalle ossa intatte era un auspicio per la fecondità del gregge, in modo che quell’offerta venisse poi idealmente restituita moltiplicata nei parti futuri delle pecore; il sangue asperso sugli stipiti e gli architravi delle residenze aveva un valore apotropaico contro gli spiriti del male (l’angelo benefico passerà e non colpirà le case segnate dal sangue). Ora, la transumanza avveniva proprio a primavera, scandita allora sul calendario lunare, ed è per questo che anche la data ebraica, il 14 del mese di Nisan (marzo-aprile), era vincolata al plenilunio primaverile.

            Eppure il rito pasquale biblico imprime a quella festa pastorale una svolta radicale: essa non è più una solennità stagionale, ciclica e naturistica, bensì la memoria storica di un evento unico, quello della liberazione di Israele dalla schiavitù egiziana nel XIII sec. a. C. Non è più, perciò, un rito ritmico ed estrinseco, ma una vicenda che coinvolge l’esistenza sociale di un popolo, nella sua liberazione, considerata come un dono divino. La distruzione del tempio di Sion nel 70 d. C. ha fatto sì che il seder, cioè l’”ordine” cerimoniale del giudaismo successivo, avesse una differente impostazione non più sacrificale, con una sequenza molto pittoresca e suggestiva che ha nel pane azzimo (che, tra l’altro, il libro del Deuteronomio chiamava già “il pane della miseria”, ossia della schiavitù) e nei quattro calici di vino le componenti simboliche più rilevanti. Ed è per questa via che possiamo trasferirci nella Pasqua cristiana.

            Essa ha appunto nell’ultima cena di Cristo la sua sorgente. Gesù, però, imprime una svolta ulteriore e, come ricordano i tre Vangeli Sinottici (Matteo, Marco e Luca) e la relazione offerta da san Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (11, 23-25), il pane azzimo spezzato riceve una nuova e sorprendente funzione, così come il vino del calice (probabilmente la terza delle quattro coppe del seder giudaico, la più solenne, detta “del memoriale o della benedizione”) viene orientato in un senso innovativo analogo. Sul pane, infatti, Cristo dichiara: «Questo è il mio corpo», e sul calice: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue». I segni antichi, pur restando identici, sono trasformati nel loro valore e nel loro significato intimo e collegati alla persona di Cristo, al suo imminente sacrificio e alla sua perenne presenza nella storia. Siamo, quindi, davanti a una nuova liberazione, non più dalla servitù sociale ma dall’oppressione del male e del peccato. Non mancherà, però, un rimando all’agnello del primo rito ebraico ed è il quarto evangelista, Giovanni, a marcarlo nel capitolo 19 della sua opera.

            I soldati romani, per accelerare la morte dei condannati crocifissi, spezzavano loro le gambe in modo da soffocarli col peso del corpo inerte. Così fanno ai due malfattori crocifissi con Gesù, ma a lui non riservano questo trattamento e gli trafiggono il costato. San Giovanni, allora, registra l’evento riferendolo simbolicamente all’agnello pasquale dalle ossa intatte, secondo la citata norma dell’Esodo (12, 42): «A Gesù non spezzarono le gambe […] perché si adempisse la Scrittura che dice: Non gli sarà spezzato nessun osso» (19, 33.36). Naturalmente sono molte e complesse le questioni storiche, esegetiche e teologiche che sono compaginate con le narrazioni. Ne citiamo solo una tra tutte, quella della cronologia dell’ultima cena di Gesù. Tra i Sinottici e il quarto Vangelo c’è lo sfasamento di un giorno: per i primi quella cena era pasquale, e così fu la successiva sequenza di eventi fino alla crocifissione; per Giovanni, invece, la solennità della Pasqua ebraica sarebbe iniziata solo la sera del giorno della crocifissione. Tra le diverse spiegazioni proposte ce n’è una che è stata rinverdita lo scorso anno proprio da Papa Benedetto XVI durante l’omelia del giovedì santo: Gesù, in realtà, avrebbe seguito un antico calendario sacerdotale, ripreso dalla comunità giudaica di Qumran sul mar Morto. Si spiegherebbe, così, la cronologia dei Sinottici, mentre il quarto evangelista calcolerebbe gli eventi degli ultimi giorni di Cristo secondo il calendario ufficiale in vigore nel tempio gerosolimitano.

            Non addentriamoci ulteriormente in questi percorsi molto complessi e cerchiamo, invece, di riservare un cenno alla sontuosa ritualità della Pasqua liturgica cristiana. Ci accontentiamo di evocare qualche tratto della celebrazione ortodossa, sperando che i nostri lettori conoscano già i mirabili riti della Settimana Santa cattolica, sia nella forma dell’antico Messale latino, sia in quella della liturgia conciliare (è un’esperienza – se ben compiuta – veramente straordinaria e non solo per i fedeli). Tutto ha inizio col cosiddetto “Grande Giovedì” ortodosso che, a partire dall’”ottava ora” (le quattro pomeridiane), commemora sia l’istituzione dell’eucaristia, avvenuta durante l’ultima cena già ricordata, sia la lavanda dei piedi dei discepoli come gesto di amore e di donazione da parte di Gesù, sia il tradimento di Giuda. Quest’ultimo tema è sviluppato con passione dai testi della liturgia ortodossa: la Chiesa e l’anima coi loro canti si rivolgono a Gesù tradito per consolarlo, al traditore per protestare il proprio sdegno, a tutto il popolo cristiano perché si impegni a non tradire mai il Signore. È interessante notare che uno dei più bei canti di quella celebrazione, il testo innico per il “grande ingresso” delle offerte eucaristiche, è conservato ancor oggi anche nella liturgia del Giovedì santo secondo il rito della Chiesa ambrosiana milanese, nel quale, dopo la lettura della passione secondo Matteo, si canta appunto lo stesso testo: «Oggi, Figlio dell’Eterno, come amico al banchetto tuo stupendo tu mi accogli. Non affiderò agli indegni il tuo mistero né ti bacerò tradendo come Giuda, ma ti imploro, come il ladro sulla croce, di ricevermi, Signore, nel tuo regno».

            Ma il vertice di tutta la liturgia ortodossa è nella magnifica veglia pasquale che sfocia nel mattutino di Pasqua quando i celebranti e i fedeli si scambiano tre baci esclamando: «Cristo è risorto!», a cui si risponde: «Veramente è risorto!». Al centro c’è la solenne celebrazione eucaristica. Il pane liturgico è chiamato in greco prosforà (“offerta”), è di fior di farina e ha una forma cilindrica a due parti sovrapposte. Nella porzione superiore viene impresso un sigillo di otto lettere greche distribuite in un quadrato: IC / XC / NI / KA. Esse corrispondono alla frase greca Iesùs Christòs nikà, «Gesù Cristo vince!». Di solito vengono preparate cinque prosforài,  “offerte”. La più grande, detta artos, “pane”, è quella destinata alla consacrazione eucaristica e apre il corteo professionale delle offerte come segno dell’Agnello pasquale e del pane di vita. Gli altri quattro pani sono solo benedetti e sono dedicati rispettivamente al ricordo della Vergine, dei santi, dei fedeli vivi e di quelli defunti. Al termine della liturgia pasquale si svolge un gustoso cerimoniale, quello della benedizione dei cibi pasquali. In Russia, ad esempio, si preparano su lunghe tavolate uova rosse o variamente decorate, simbolo del sepolcro che si apre per offrire al mondo la vita del Risorto, una ricotta a forma di piramide tronca detta Pasqua e il kulič, una specie di panettone con spezie e uva passa. Il tutto è ornato con fiori di carta e con candeline, quasi a sceneggiare una primavera di luce e di vita, primizia della felicità celeste.

            E ora una domanda finale. Fuori dei templi, nel groviglio delle strade metropolitane, tra i rumori e i commerci, in mezzo al riso e alle lacrime, là dove forse s’insinuano le bestemmie o la totale indifferenza spirituale, che Pasqua si celebra? Abbiamo cercato, allora, una sorta di liturgia pasquale apparentemente del tutto laica. Ce la suggerisce un poemetto dal titolo emblematico, Pasqua a New York. A comporlo è stato, nel 1912, Blaise Cendrars, poeta, narratore, reporter, sceneggiatore di film, nato nel 1887 in Svizzera da madre scozzese e padre elvetico e morto a Parigi nel 1961. Vagabondo, combattente (nella prima guerra mondiale perse una mano e su questa disgrazia scrisse pure un romanzo, La mano mozza), maestro dell’avanguardia, Cendrars è immerso nella Grande Mela proprio nei giorni della Settimana Santa.Tutt’attorno, nella città secolare, non ci sono segni di quegli eventi antichi eppure eterni.

            «È oggi, Signore, il giorno del tuo Nome, / ho letto in un vecchio libro le gesta della tua passione / e la tua angoscia e i tuoi travagli e le tue buone parole …/  Fu a quest’ora, verso l’ora nona, / che cadde, Signore, sul petto la tua testa… / Il tuo costato aperto è come un grande sole, / le tue mani tutt’intorno palpitano di scintille …». Il poeta avanza tra le strade di New York popolate di prostitute e di affaristi, di gente occupata e distratta, ma il suo pensiero non si stacca da quel volto reclinato nel sonno della morte all’”ora nona”, ossia alle tre di quel pomeriggio primaverile gerosolimitano. «Signore, sono nel quartiere dei ladri, dei vagabondi, dei pezzenti, dei ricettatori. / Penso ai due ladroni ch’erano con te suppliziati, / so che ti degni di sorridere a questi sventurati…». L’ordinaria miseria quotidiana delle città viene, così, trasfigurata. Il poeta sente – come era accaduto ai discepoli di Emmaus – che il Signore risorto «cammina stasera accanto a me» e a questa folla inconsapevole di quella presenza trascendente. Tuttavia, lo stimma del dubbio permane: «Forse la fede mi manca, Signore, e la bontà, / per vedere l’irradiarsi della tua Bellezza». Cendrars, però, procede – lasciandosi guidare, lungo le strade commerciali di New York, da quella figura presente e assente al tempo stesso, ma anche dalla sua personale emozione interiore – fino alla triste stanza d’albergo che lo ospita. E là sboccia l’invocazione: «Signore, la Banca illuminata è come una cassaforte / dove si è coagulato il Sangue della tua morte… / Signore, rientro stanco, solo e molto triste. / La mia camera nuda è come una tomba. / Signore, sono troppo solo. Ho freddo. Ti invoco».