Barca nostra

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Barca nostra Foto di Andrea Avezzù, Courtesy: La Biennale di Venezia

Il 2 agosto 2019 Sua Eccellenza Monsignor Paul Tighe ha visitato il relitto del barcone del naufragio di Lampedusa del 18 aprile 2015, accolto nel contesto della Biennale Arte, portando, a nome del Santo Padre, una parola di apprezzamento per l'iniziativa e di orante ricordo per le vittime.   

Barca nostra

Il 18 aprile 2015, nel canale di Sicilia, è avvenuto uno dei naufragi più tragici nella storia del «Mare Nostro», il Mediterraneo, tra la costa libica e quella di Lampedusa. Vi furono 28 superstiti e vennero date per disperse tra le 700 e le 1100 persone.

La barca, che è diventata una tomba per gente alla ricerca di speranza, oggi è Barca nostra perché è la nostra umanità ad essere stata ferita e affondata. Questo avviene ogni volta che una mano tesa viene respinta, ogni volta che un uomo che affoga viene lasciato morire nel nero carbone dell’acqua.

Questa barca è stata recuperata dai fondali: un sussulto di umanità ha guidato quel gesto. Dare sepoltura ai morti è da sempre uno dei grandi valori della nostra cultura perché esprime la pietas che ci rende umani. È davvero «nostra». Oggi deve essere come il cavallo di Troia, che espugna la nostra durezza di cuore, la viltà delle nostre paure. In questo senso Barca nostra è opera di memoria che aiuta a comprendere il mondo e la nostra umanità. Non è più un «relitto», ma un manifesto. Per questo è bene che sia esposta alla Biennale Arte. È un’opera che – diventata simbolo – parla alla umanità di tutti e coinvolge confini reali e simbolici.

«Adamo, dove sei?» chiede Dio a un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di poter dominare tutto. «Adamo, dove sei?» chiede a ciascuno di noi questa barca. Poi, Dio pone la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Non siamo più capaci di custodirci gli uni gli altri, abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna. La globalizzazione dell’indifferenza – ha ricordato papa Francesco – ci rende tutti  manzonianamente «innominati», responsabili senza nome e senza volto.

Barca nostra è il relitto di una Odissea di stracci, un Esodo senza Mosè. Contiene ancora oggi storie, volti, persone che non sono eroi: il loro viaggio non ha nulla di esplorativo, nulla di esemplare: quello che viene rappresentato è il dolore dell’essere umano, che non termina con la fuga dalla guerra, ma continua attraverso il viaggio e l’approdo sulle coste dell’Occidente.

Viene alla mente La zattera della medusa, di Théodore Géricault, raffigurante il naufragio della fregata francese Méduse, avvenuto il 2 luglio 1816, dinanzi alle coste della Mauritania. Barca nostra si fa carico del valore di opere come quella che sono opera d’arte anche perché provocano uno shock alla nostra abituale conoscenza del mondo e un farmaco contro l’anestesia del cuore.

Sono solo legni: non c’è la raffigurazione del dramma compiuto né dei suoi protagonisti. La barca è una croce d’oggi senza il suo «povero Cristo», il calco vuoto di una tragedia che, non soltanto chiede di essere ammirato e osservato esteticamente, ma, come nella tragedia greca, espone il visitatore alla tempesta della domanda di senso. La drammatica bellezza – e la Biennale Arte ci obbliga ad accettare proprio il paradosso di questa «bellezza» – di Barca nostra sprigiona una tensione etica che non può cadere nel vuoto se vogliamo restare umani.