A dieci anni dalla "Lettera agli artisti" di Giovanni Paolo II

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Recava la data del 4 aprile 1999, il giorno di Pasqua dell’anno che stava affacciandosi sul terzo millennio. Con quella Lettera destinata a tutti coloro che operano nell’orizzonte molto variegato dell’arte e indirettamente a tutti quanti sono convinti che la bellezza sia «un invito a gustare la vita e a sognare il futuro», Giovanni Paolo II entrava in un territorio ideale che da secoli custodiva l’impronta del messaggio cristiano attraverso il suo apparato folgorante di simboli, figure, narrazioni, segni e colori. A distanza di un decennio è significativo riprendere tra le mani quello scritto, mentre si tenta di riannodare il filo interrotto del dialogo tra arte e fede, dopo tante degenerazioni, provocazioni, incomprensioni. Si pensi, ad esempio, all’attuale fecondo – anche se non sempre facile – incontro con l’architettura nell’edificare nuovi templi o al ventilato progetto di una presenza della Santa Sede, attraverso la Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, alla Biennale di Venezia nella futura edizione 2011.

Ma se ritorniamo al testo di Giovanni Paolo II, ci imbattiamo subito un primo elemento piuttosto inatteso per un documento pontificio: è la sorpresa di scoprire nel tessuto di quelle pagine la presenza di Dante e di Dostoevskij, di Claudel e di quel grande cantore della bellezza delle icone che è stato Pavel Florenskij e di tanti altri personaggi della cultura. Sorprende anche veder accostati alle rarefatte intuizioni di Nicolò Cusano gli impasti cromatici sontuosi di Chagall. Che a scrivere questa Lettera agli artisti sia un Papa che è stato drammaturgo, poeta, scrittore e, per certi versi, una voce che canta lo si vede da questi riferimenti e da quelli legati anche alla cultura della sua terra. Da un lato, infatti, nello scritto appare una citazione di Adam Mickiewicz (1798-1855), il bardo del popolo polacco, e d’altro lato si evoca la figura di Cyprian K. Norwid (1821-1883), amico di Chopin, divenuto celebre per la poesia Il pianoforte di Chopin, che è una specie di emblema nazionale polacco. Era stato lui a cantare l’arte come il fiore dell’amore che affonda le sue radici nel terreno della libertà.

Ovviamente la Lettera di un Papa ha sempre una finalità ulteriore, teologica e spirituale, pastorale ed ecclesiale. La base, però, di questo documento intenso e suggestivo è storica, si annoda cioè a quel filo d’oro che ha sempre unito attraverso i secoli fede e arte. Non aveva esitazioni il critico canadese Northrop Frye quando nel suo famoso saggio Il grande codice scriveva che «la Bibbia è l’universo entro cui la letteratura e l’arte occidentale hanno operato sino al XVIII secolo e stanno ancora in larga misura operando». Lo stesso Nietzsche – che pure si batteva per l’abbandono della cultura ebraico-cristiana – era costretto a riconoscere, nei materiali preparatori alla stesura dell’opera L’aurora, che «per noi Abramo è più di ogni altra persona della storia greca o tedesca. Tra ciò che sentiamo alla lettura dei Salmi e ciò che proviamo alla lettura di Pindaro o Petrarca c’è la stessa differenza tra la patria e la terra straniera».

Questo connubio, s’era, però, come dicevamo, negli ultimi tempi incrinato e forse spezzato. E’ per questo che Giovanni Paolo II rilanciava agli artisti il messaggio del Concilio, quel testo bellissimo che ebbi anch’io la fortuna di ascoltare dal vivo la mattina dell’8 dicembre 1965 in piazza S. Pietro: «A voi tutti, artisti che siete innamorati della bellezza e che per essa lavorate… Oggi come ieri la Chiesa ha bisogno di voi, si rivolge a voi. Essa vi dice con la nostra voce: non lasciate interrompere un’alleanza fra tutte!». Paolo VI, un pontefice tanto sensibile all’arte, alla poesia, alla musica, al pensiero, aveva ripetutamente ribadito durante il suo grande e profondo magistero questo tema dell’ “alleanza” da ritessere tra arte e fede.

Anche la Lettera di Giovanni Paolo II lo fa con insistenza, non solo ripercorrendo l’arco glorioso del passato quando dall’artista «la materia era piegata all’adorazione del mistero» e l’icona diveniva «in un certo senso sacramento» della presenza divina, ma anche con la convinzione - espressa sottovoce e sotto il velo di una domanda - che «l’arte ha bisogno della Chiesa». Ha bisogno perché la Bibbia – come si ricorda nel documento papale – è «il grande lessico» iconografico dell’arte (Claudel), è «l’alfabeto colorato della speranza in cui hanno intinto il loro pennello gli artisti di tutti i secoli» (Chagall). L’arte ha bisogno della fede cristiana anche perché «il dogma centrale dell’Incarnazione del Verbo di Dio offre all’artista un orizzonte particolarmente ricco di motivi di ispirazione».

Ma dalla storia la riflessione del Papa si protendeva – com’era naturale – lungo una traiettoria squisitamente teologica. L’arte è un’epifania della bellezza divina ed è perciò generazione di grazia e di illuminazione; è, per usare una celebre locuzione dantesca, «a Dio nepote». La lettura di questa dimensione trascendente dell’arte è condotta da Giovanni Paolo II in chiave trinitaria. L’artista partecipa all’opera creatrice del Padre: «Dio ha chiamato all’esistenza l’uomo trasmettendogli il compito d’essere artefice…, chiamandolo a condividere la sua potenza creatrice». L’Incarnazione del Figlio ha irradiato di luce, verità e bellezza la storia e il mondo, rendendoli disponibili all’occhio, alla mente e al cuore dell’artista: «Facendosi uomo, il Figlio di Dio ha introdotto nella storia dell’umanità tutta la ricchezza evangelica della verità e del bene, e con essa ha svelato anche una nuova dimensione della bellezza: il messaggio evangelico ne è colmo fino all’orlo».

E, infine, lo Spirito Santo, «misterioso artista dell’universo», che «pervade sin dall’inizio l’opera della creazione», trasfigura ogni creazione artistica «con una sorta di illuminazione interiore che unisce insieme l’indicazione del bene e del bello», offrendo così «la possibilità di fare una qualche esperienza dell’Assoluto che lo trascende». Se, quindi, l’arte ha alla sua radice quest’illuminazione divina, essa diventa a sua volta segno del divino:«l’arte deve rendere percepibile e affascinante il mondo dello spirito, dell’invisibile, di Dio». E’ quella via pulchritudinis che la tradizione cristiana ha sempre percorso, che è stata formalizzata ulteriormente dal pensiero teologico di Hans Urs von Balthasar; è quell’intenzione che era nel cuore degli stessi artisti del passato, se è vero che negli Statuti d’arte dei pittori senesi del Trecento si leggeva: «Noi siamo manifestatori, agli uomini che non sanno leggere, delle cose miracolose operate per virtù della fede» (e il pensiero qui corre spontaneamente alla Biblia pauperum…). E in tempi più vicini ai nostri il poeta francese Jules Laforgue esclamava: «L’Arte c’est l’Inconnu», l’arte è epifania dell’Ignoto, con la maiuscola, ossia del mistero, del trascendente, del divino.

Tuttavia, c’era nelle parole del Papa anche una sottile ansia che potremmo chiamare “esistenziale”, pur essendo di sua natura pastorale. Infatti, l’arte è necessaria in un mondo che sta ingrigendo, che si scolora nella superficialità, che perde l’energia dello spirito, che procede a tentoni senza una rotta e una meta. Giovanni Paolo II ricorreva a un poeta amato, il citato Mickiewicz il quale era convinto che «emerge dal caos il mondo dello spirito». Il Papa era certo che «l’umanità di tutti i tempi - anche quella di oggi - aspetta di essere illuminata sul proprio cammino e sul proprio destino». In questa prospettiva bello, vero e bene s’intrecciano spontaneamente nell’arte autentica. In questa luce è comprensibile il celebre asserto di Dostoevskij secondo cui «l’umanità senza la bellezza non potrebbe più vivere». In questa linea è da riascoltare il citato messaggio del Concilio agli artisti: «Questo mondo in cui viviamo ha bisogno di bellezza per non oscurarsi nella disperazione. La bellezza, come la verità, è ciò che mette la gioia nel cuore degli uomini, è il frutto prezioso che resiste all’usura del tempo, che unisce le generazioni e le congiunge nell’ammirazione. E ciò grazie alle vostre mani».