LA SANTA SEDE ALLA BIENNALE ARCHITETTURA 2018

Cardinal Ravasi in occasione della Conferenza Stampa

Print Mail Pdf
condividi  Facebook   Twitter   Technorati   Delicious   Yahoo Bookmark   Google Bookmark   Microsoft Live   Ok Notizie

mapstudio Progetto @Map Studio

Per la prima volta la Santa Sede, che rappresenta la Chiesa cattolica nella sua universalità, entra nello spazio della Biennale di Architettura di Venezia. E lo fa approdando su un’isola affascinante della Laguna, quella di San Giorgio, e penetrando nell’oasi di un bosco non attraverso rappresentazioni grafiche o modelli ma con una vera e propria sequenza di cappelle. Nel culto cristiano esse sono veri e propri templi, sia pure in forma minore rispetto alle cattedrali, alle basiliche e alle chiese. In esse sono inserite due componenti fondamentali della liturgia, l’ambone (o pulpito) e l’altare, cioè le espressioni della Parola sacra proclamata e della Cena eucaristica celebrata dall’assemblea dei credenti.

Il numero delle cappelle è anch’esso simbolico perché esprime quasi un decalogo di presenze incastonate all’interno dello spazio: sono simili a voci fatte architettura che risuonano con la loro armonia spirituale nella trama della vita quotidiana. Per questo la visita alle dieci Vatican Chapels è una sorta di pellegrinaggio non solo religioso ma anche laico, condotto da tutti coloro che desiderano riscoprire la bellezza, il silenzio, la voce interiore e trascendente, la fraternità umana dello stare insieme nell’assemblea di un popolo, ma anche la solitudine del bosco ove si può cogliere il fremito della natura che è come un tempio cosmico. A precedere questa sfilata c’è un emblema: è la «Cappella nel bosco» dell’architetto svedese Gunnar Asplund che, attraverso i suoi disegni progettuali, a distanza di quasi un secolo (1920) e da una regione diversa, rievoca la costante ricerca dell’umanità nei confronti del sacro all’interno dell’orizzonte spaziale della natura in cui si vive.

Proprio per rappresentare questa «incarnazione» del tempio nella storia, il dialogo con la pluralità delle culture e delle società e per confermare la «cattolicità», cioè l’universalità della Chiesa, sull’isola di San Giorgio sono giunti architetti provenienti da origini ed esperienze diverse, dalla vicina Europa con la sua configurazione storicamente variegata al lontano Giappone dotato di radici religiose originali, dalla vivace spiritualità latino-americana a quella apparentemente più secolarizzata degli Stati Uniti, fino alla remota Australia che in realtà riflette la comune contemporaneità.

Alle spalle di questo ingresso della Santa Sede nella Biennale di Venezia c’è, però, un antefatto. Già nel 2013 e nel 2015 la San Sede era entrata con un suo padiglione in due edizioni della Biennale d’Arte proponendo un messaggio «primordiale» affidato all’«In principio» delle stesse Scritture Sacre ebraico-cristiane. Nella prima edizione gli artisti riprendevano tra le mani, come si era fatto per secoli, il libro biblico della Genesi e il suo incipit, che è anche l’avvio dell’essere e dell’esistere: «In principio Dio creò il cielo e la terra...». Creazione dell’universo e dell’umanità, de-creazione (diluvio e Babele) e ri-creazione con l’inizio della storia della redenzione con Abramo ritornavano a essere un soggetto tematico per l’arte contemporanea. Nella seconda presenza alla Biennale d’Arte era stato, invece, l’ideale incipit del Nuovo Testamento a riproporre un altro inizio assoluto che dall’eternità divina discendeva e s’intrecciava con la carnalità umana storica e contingente: «In principio era il Verbo... e il Verbo carne divenne», come si legge nel celebre inno che funge da prologo al Vangelo di Giovanni.

La scelta era netta ed esplicita e compiva un’inversione rispetto al passato recente. A partire dal secolo scorso, infatti, s’era compiuto un divorzio lacerante tra arte e fede. Esse, in realtà, erano state a lungo sorelle, al punto tale che Marc Chagall non esitava a dire che «per secoli i pittori hanno intinto il loro pennello in quell’alfabeto colorato che era la Bibbia», il «grande codice» della cultura occidentale, come la definiva un altro artista, William Blake. Ora, invece, le loro strade si erano divaricate.

Da un lato, l’arte aveva lasciato il tempio, l’artista aveva relegato sullo scaffale polveroso del passato la Bibbia, si era avviato lungo le strade «laiche» e secolari della modernità, rifuggendo spesso dal ricorso a figure, simboli, narrazioni, parole sacre. Anzi, l’artista non di rado ha considerato il messaggio come un capestro ideologico e si è dedicato a esercizi stilistici sempre più elaborati e autoreferenziali, oppure talora a provocazioni dissacranti. L’arte si è affidata a una critica esoterica incomprensibile ai più e si è asservita alle mode e alle esigenze di un mercato sovente artificioso e fin eccessivo.

D’altro lato, la teologia si è rivolta quasi esclusivamente alla speculazione sistematica che crede di non aver bisogno di segni o metafore; anch’essa ha relegato nel deposito del passato il grande repertorio simbolico cristiano. In ambito ecclesiale si è ricorsi prevalentemente al ricalco di moduli, stili e generi delle epoche precedenti, o ci si è orientati all’adozione del più semplice artigianato, o, peggio, ci si è adattati alla bruttezza che imperversa nei nuovi quartieri urbani e nell’edilizia aggressiva, innalzando edifici sacri modesti, privi di spiritualità, di bellezza e di confronto coi nuovi linguaggi artistici e architettonici che frattanto si stavano elaborando.

È da questa situazione che è rinato il desiderio di un nuovo incontro tra arte e fede, due mondi che nei secoli passati erano quasi sovrapponibili e che erano divenuti invece reciprocamente estranei. Si tratta di un percorso certamente arduo e complesso che si nutre ancora di mutui sospetti ed esitazioni e persino di timori di eventuali degenerazioni. È un dialogo che in architettura ha già registrato tappe significative e che, a livello generale, è iniziato già a metà del secolo scorso non solo attraverso l’opera di teologi e di pastori ecclesiali sensibili ma anche nella voce dello stesso magistero ufficiale della Chiesa, a partire da Paolo VI col suo incontro nel 1964 nella Cappella Sistina con gli artisti, per procedere poi con la Lettera a loro indirizzata nel 1999 da san Giovanni Paolo II, col nuovo incontro di Benedetto XVI nella stessa Cappella Sistina nel 2009.

Questo primo ingresso della Chiesa cattolica nella Biennale di Architettura di Venezia avviene sotto il pontificato di papa Francesco. Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, che è stata una sorta di manifesto programmatico agli inizi del suo ministero petrino (24 novembre 2013), egli ha voluto rinnovare una traiettoria classica nel cristianesimo, la cosiddetta via pulchritudinis, cioè la bellezza come strada religiosa, consapevole dell’asserto di sant’Agostino secondo il quale «noi non amiamo se non ciò che è bello» (De Musica VI, 13, 38). Concretamente, il papa esalta «l’uso delle arti nella stessa opera evangelizzatrice, in continuità con la ricchezza del passato, ma anche nella vastità delle sue molteplici espressioni attuali, al fine di trasmettere la fede in un nuovo linguaggio parabolico».

È suggestivo che gli Statuti d’arte degli artisti senesi del Trecento si aprivano con questa dichiarazione: «Noi siamo coloro che manifestano agli uomini che non sanno lettura le cose miracolose operate per virtù della fede». Già san Giovanni Damasceno, il grande difensore nell’VIII secolo dell’arte cristiana contro l’iconoclasmo propugnato dall’imperatore e da ampi strati della Chiesa di allora, aveva suggerito: «Se un pagano viene e ti dice: Mostrami la tua fede!, tu portalo in chiesa e mostra a lui la decorazione di cui è ornata e spiegagli la serie dei sacri quadri».

Papa Francesco conclude così: «Bisogna avere il coraggio di trovare i nuovi segni, i nuovi simboli, una nuova carne per la trasmissione della Parola, le diverse forme di bellezza che si manifestano in vari ambiti culturali, comprese quelle modalità non convenzionali di bellezza che possono essere poco significative per gli evangelizzatori, ma che sono diventate particolarmente attraenti per gli altri».

Gianfranco Card. Ravasi