La comunicazione mistagogica: simbolo e arte per la liturgia e l’evangelizzazione
Introduzione
Nel Sinodo straordinario del 1985, celebrato a vent’anni dalla chiusura del Concilio Vaticano II, i padri sinodali nell’indicare alcune urgenze per la ricezione della costituzione Sacrosantum concilium chiedevano che «le catechesi, come già accadeva all’inizio della chiesa, [tornassero] a essere un cammino che introduca alla vita liturgica», fossero cioè «catechesi mistagogiche»[1]. I padri sinodali hanno dunque messo in risalto e hanno fortemente richiesto, seppur restringendola alle catechesi, la comunicazione mistagogica, ossia quella comunicazione che – come dice il termine greco mystagoghía – ha la caratteristica di iniziare, guidare, condurre al mistero.
Ma proprio a partire da questa semplice osservazione di carattere etimologico si comprende che la comunicazione mistagogica non è possibile solo nella catechesi, ma anche in tutte le operazioni teologiche; di più, si comprende – e ciò è di importanza primaria – che la liturgia stessa è mistagogia, in quanto comunicazione attraverso parole, azioni, segni, comunicazione che vuole introdurre al mystérion. Lo ha rilevato con chiarezza Benedetto XVI nell’Esortazione apostolica Sacramentum caritatis, dove ha ripreso, approfondito e ampiamente sviluppato il tema della mistagogia, anche in funzione di una liturgia interiormente partecipata[2]. La liturgia dunque è sempre comunicazione mistagogica, è sempre uno strumento ermeneutico: con esso però concorre in sinergia la grazia preveniente, l’efficace operare dello Spirito santo, senza il quale non si partecipa al mistero. Lo esprime bene l’orazione post communionem dell’Epifania (Messa del giorno):
Cælesti lumine, quaesumus Domine,
semper et ubique nos præveni
ut mysterium cuius nos participes esse voluisti
et puro cernamus intuitu
et digno percipiamus affectu[3].
Con la luce celeste, ti preghiamo, o Signore,
previenici sempre e dovunque,
affinché contempliamo con sguardo puro
e accogliamo con degno affetto
il mistero di cui tu ci hai voluti partecipi[4].
La comunicazione mistagogica vuole rivelare l’azione del Signore che si manifesta in varie forme, ma vuole anche aiutare il destinatario di tale comunicazione a percepirla: essa deve consistere in una pre-disposizione, in un predisporre tutto perché lo Spirito santo possa agire con efficacia e così il fedele possa diventare partecipe del mistero[5].
Fatte queste osservazioni preliminari, vorrei indicare quelle che mi sembrano tre urgenze affinché la comunicazione mistagogica possa condurre a una partecipazione consapevole e spirituale al mystérion:
1. Dal mystérion rivelato ai mystéria celebrati.
2. La comunicazione mistagogica della liturgia.
3. Simboli e arte per la liturgia e per l’evangelizzazione.
1. Dal mystérion rivelato ai mystéria celebrati
Va subito detto che, nell’accezione odierna dominante, il «mistero» è compreso come enigma, come ciò che non è comprensibile. Non è così nelle Sante Scritture, dove il termine greco mystérion nella versione dei LXX traduce l’aramaico raz (cf. Dn 2,18.19.27.28.29.30.47; 4,6), che indica «ciò che è nascosto, segreto». Nel Nuovo Testamento, poi, esso designa ciò che è stato nascosto, ma lo è stato per essere rivelato a quanti ascoltano la Parola di Dio, i quali accolgono così la rivelazione, l’alzare il velo che Dio opera su di sé e sulla propria volontà: è sempre un progetto di salvezza che Dio opera, realizza nella storia. Il mystérion è dunque sempre collocato nella dinamica kpyptós-phanerós, così espressa da Gesù: «Ciò che è stato nascosto, lo è stato per essere rivelato» (cf. Lc 8,17; Mc 4,22). Anzi, il mystérion è addirittura un dono di Dio sicché lo stesso Gesù ha potuto dire ai discepoli: «A voi è stato dato, consegnato (verbo dídomi) il mistero del Regno di Dio» (Mc 4,11).
Ma è soprattutto Paolo che ha saputo esprimere la densità teologica del mistero: per lui il mistero è sempre mistero di Dio, ma letto di volta in volta nella specificità di una sua azione, di un suo intervento, tutti connessi nel suo disegno, nel suo piano di salvezza. Quale oikonómos mysteríon theoû, «amministratore dei misteri di Dio» (cf. 1Cor 4,1), l’Apostolo «ha avuto per rivelazione la conoscenza del mistero» (cf. Ef 3,3), e per questo a volte comunica un mistero (cf. 1Cor 15,51), a volte mette in piena luce la comunicazione del mistero (cf. Ef 3,9), altre volte afferma di «far conoscere con parrhesía il mistero del Vangelo» (Ef 6,19), che chiama anche «mistero di Cristo» (Col 4,3).
Il mystérion è il disegno assolutamente gratuito di Dio, il disegno del suo amore che è stato rivelato e realizzato nella pienezza dei tempi, ponendo Cristo al centro della storia di salvezza. «Il mistero nascosto da secoli in Dio» (Ef 3,9) è stato rivelato in Cristo, evento del mistero; è stato manifestato nella Pasqua di Cristo, l’ora dell’esegesi dell’agápe, l’ora in cui in cui Gesù «ha narrato» (exeghésato: Gv 1,18) definitivamente che «Dio è amore» (1Gv 4,8.16). Mistero dunque trinitario, ma anche mistero cosmologico, e inoltre mysterium fidei, mistero della fede – come proclama il presbitero al cuore dell’anamnesi eucaristica – in cui è sintetizzata dossologicamente tutta l’economia della salvezza, dall’in-principio fino alla parusia. Sì, per dirla con un concetto caro a Ireneo di Lione, il mistero è ricapitolazione di tutta la storia di salvezza[6]; Teodoro Studita (759-826) parla in proposito di «ricapitolazione di tutta l’economia» (synkephalaíosis tês hóles oikonomías)[7]. Questo è il mistero del quale Dio ci vuole rendere partecipi, fino alla verità vissuta personalmente: «Cristo in voi (Christòs en hymîn), speranza della gloria» (Col 1,27). Proprio questa espressione è per Louis Bouyer, il teologo e liturgista del mystérion, la sintesi del mistero[8].
Ma questo mystérion è consegnato alla chiesa innanzitutto perché essa ne diventi partecipe nell’ascolto, nella liturgia. Ha scritto Leone Magno: «Quod redemptoris nostri conspicuum fuit, in sacramenta transivit»[9]; e Ambrogio ha affermato: «In tuis[, Domine,] te invenio sacramentis»[10]. In queste espressioni constatiamo che il mistero rivelato può essere accolto, recepito nella celebrazione dei misteri, in quei mystéria liturgici che la tradizione latina chiama preferibilmente sacramentum-sacramenta. L’agire sacramentale ha sempre la sua origine nel mystérion di Cristo, nel mistero pasquale, è sempre opera dello Spirito santo, è sempre orientato alla partecipazione.
Ma ciò che qui vorrei mettere in risalto è che l’azione liturgica, azione simbolica e dunque comunicazione in atto attraverso parole, azioni e creature, al cuore dell’Antico e del Nuovo Testamento precede l’evento in cui si epifanizza, si realizza il mistero. In altre parole, l’azione liturgica è anticipazione profetica di ciò che Dio sta per compiere: l’esodo di Israele dall’Egitto, così come l’esodo del Figlio Gesù Cristo da questo mondo al Padre. Prima che avvenga l’evento nella storia c’è la celebrazione liturgica, c’è una comunicazione mistagogica che prepara l’accoglienza dell’evento come azione di Dio, evento dovuto non alla necessità né al caso ma all’azione sovrana di Dio, che risponde sempre al suo amore e alla sua libertà. L’istituzione della Pasqua dell’Antico Testamento (cf. Es 12,1-13,16) e l’istituzione della Pasqua di Cristo (cf. 1Cor 5,7) precedono l’evento nella storia e preparano alla comprensione nella fede dell’evento stesso, del mistero di salvezza; ma nello stesso tempo esse sono istituite perché siano memoriale, zikkaron, anámnesis dell’evento di salvezza, del mystérion che dovrà sempre essere celebrato.
2. La comunicazione mistagogica della liturgia
Unico è il mystérion toû theoû (1Cor 2,1; Col 2,2; Ap 10,7), ma le sue modalità di espressione sono le Sante Scritture e la liturgia o, meglio ancora, la Parola di Dio contenuta nelle Sante Scritture, il libro aperto dall’Agnello all’interno della santa liturgia (cf. Ap 5).
Sì, la liturgia è innanzitutto opus Dei, azione di Dio, compiuta attraverso Cristo sempre presente nelle azioni liturgiche, il quale agisce nella dýnamis dello Spirito santo, il suo «compagno inseparabile»[11]. Non lo si ripeterà mai abbastanza: il protagonista della liturgia è Gesù Cristo[12], perché è proprio nella liturgia celebrata dalla comunità dei credenti in lui che egli appare come il Kýrios, il Signore presente, risorto e vivente. Di conseguenza tutto il linguaggio della liturgia, la comunicazione liturgica dev’essere principalmente ordinata, definita e misurata sulla sua capacità di far apparire l’azione del Kýrios, di fare spazio al Kýrios, di fare segno (semaínein) alla sua presenza efficace. La comunicazione della liturgia, fatta di parole, azioni, gesti, riti, deve far apparire la grazia di Dio (ephepháne he cháris toû theoû: Tt 2,11), deve essere in grado di mostrare che il Signore sta veramente in mezzo ai suoi (éste eis tò méson: Gv 20,19.26), che «l’Agnello ritto sul trono» (Ap 5,6) è al centro dell’azione liturgica che lui stesso guida e conduce.
Insomma, la liturgia deve essere un linguaggio, una comunicazione avente lo scopo di spiegare (exeghésthai: cf. Gv 1,18), di manifestare (epiphaínein: cf. Tt 2,11; 3,4) e di annunciare (katanghéllein: cf. 1Cor 11,26) l’azione di Cristo nella sua comunità. In quest’ottica va detto che la liturgia è sempre comunicazione in atto: tra Dio e i credenti, tra i credenti stessi, tra la Gerusalemme del cielo e la chiesa sulla terra, tra il Creatore e la creazione. Questa comunicazione si realizza mediante azioni simboliche, gestualità, partecipazione del corpo, dei sensi e dello spirito. Sovente nella liturgia dire è fare, perché la parola produce il suo effetto, diventa performativa e trasforma colui che parla e colui che ascolta. Posture del corpo, gesti e azioni hanno una qualità simbolica e una portata poetica che permettono al credente di passare a un altro livello di significato e di essere così avvicinato al mystérion[13].
È inoltre vero che la liturgia è anche azione della chiesa, ma nel senso che la chiesa appresta tutto affinché il Signore possa agire. Quando si celebra e si vive la liturgia cristiana, occorre ricordare che in essa avviene innanzitutto una convocazione dell’assemblea (qahal, apparentato con il termine qol, voce), di tutto il popolo di Dio, ma anche di tutte le creature che non costituiscono il palco per un teatro, pur rappresentando un contesto dove tutti i convocati esprimono, mediante un registro, una comunicazione. Si pensi al fatto che in una liturgia cristiana è convocato in primo luogo il tempo («il giorno dell’assemblea», jom ha-qahal: Dt 9,10; 10,4; 18,16); è convocato uno spazio per l’assemblea; sono convocati la luce, l’acqua, il fuoco, il pane, il vino, l’olio, le creature essenziali all’azione liturgica e di cui i credenti devono consapevolmente farsi voce[14] per cantare la santità gloriosa del Signore. Nella liturgia descritta dall’Apocalisse tutto il cosmo, l’universo, rappresentato dai quattro esseri viventi, è convocato insieme alle creature invisibili e ai santi del cielo e della terra (cf. Ap 4,6.8; 5,6.8.14, ecc.).
Dunque nella liturgia cristiana entra anche la materia, entrano i frutti della terra e del lavoro, della cultura dell’uomo, e ciò che l’uomo con le sue mani sa fare e costruire: la chiesa edificio, l’altare, le vesti, ecc. È nella liturgia che si confessa Dio creatore di tutte le cose esistenti, Dio che ama e nulla disprezza di ciò che ha creato, Dio presente con il suo Spirito in tutte le creature (cf. Sap 11,24-12,1). La liturgia dice: «Amen», «Sì» alle cose, creature di Dio, ai suoni, alle pietre, ai colori, ai profumi, i quali devono solo essere capaci di linguaggio simbolico, adeguati alla loro funzione sacramentale, orientati alla mistagogia sacramentale[15]. Sono i sensi dell’uomo, la sua ragione, il suo cuore a dover essere coinvolti in questi linguaggi plurimi e differenziati che vogliono essere mistagogici, ossia in grado di condurre dai misteri celebrati al mistero della salvezza. Ecco allora che l’arte, l’architettura, la musica, la scienza dei profumi con la loro bontà e bellezza sono al servizio della liturgia (cf. Sacrosantum concilium 123), mai viceversa!
Qui vorrei brevemente fare un passo ulteriore, suggerendo uno spunto di riflessione che richiederebbe ben altro approfondimento. Credo che una comunicazione mistagogica oggi debba trovare il modo di articolare tra loro elementi come spazio, tempo, corpo e parola per dare all’uomo la possibilità di cogliere l’alterità che spazio, tempo, corpo e parola contengono in se stessi se vogliono essere veramente umanizzanti e capaci di dire Dio. La comunicazione mistagogica deve cioè saper mostrare questi elementi nella loro corposità attuale, ma anche nella loro leggerezza che li rende evocativi e allusivi a un Altro e a un Oltre; nella loro visibilità attuale, ma anche nella loro invisibilità, ovvero nella loro qualità trasfigurata. E forse proprio la categoria della trasfigurazione può stare al cuore di una simbolica mistagogica. Occorre, in estrema sintesi, che la comunicazione mistagogica sappia evocare, nella mortalità e nella caducità delle vite dei credenti che partecipano alla liturgia, la loro destinazione alla resurrezione: questo è il compito di una simbolica mistagogica che voglia realmente porsi a servizio del mistero cristiano, del mistero pasquale.
Certo, occorrono vigilanza e discernimento perché la comunicazione liturgica sia veramente mistagogica: la banalità, la mancanza di cura e di attenzione minacciano l’azione liturgica quanto un’arte, una pretesa bellezza alla quale la liturgia serva solo come contesto in cui esprimersi. Le creature, le opere d’arte, tutto ciò che viene dalla natura oppure è opus hominis possono entrare nella liturgia e comporre il suo linguaggio solo se hanno, se acquisiscono le qualità per essere mistagogiche e, di conseguenza, per essere al servizio della liturgia stessa. Guai se la liturgia fosse strumentalizzata dall’arte o si ponesse al suo servizio: ciò sarebbe demoniaco!
Occorre tutto predisporre per l’azione del Signore, tutto conferire all’arte mistagogica affinché il mistero possa essere partecipato dal fedele. Secondo Gregorio di Nazianzo il mistagogo per eccellenza è Cristo stesso, e dunque tutto ciò che entra nel linguaggio liturgico deve poter avere come soggetto lui, il Kýrios, risorto e presente, che apre la mente all’intelligenza delle Scritture e apre gli occhi all’intelligenza del gesto dello spezzare il pane, facendo ardere il cuore dei credenti (cf. Lc 24,30-32). La comunicazione mistagogica è perciò un’azione eminentemente cristologica, nella coscienza che la sola intelligenza del cristiano e i soli riti e gesti liturgici di per sé non bastano a far comprendere il mistero e a farne partecipare.
E qui vorrei ribadire che la comunicazione mistagogica non è una modalità possibile della liturgia, ma è parte integrante dell’esperienza liturgica: non c’è liturgia cristiana autentica senza mistagogia, perché non c’è vita liturgica autentica senza la conoscenza e la partecipazione ai misteri celebrati. Se invece nella liturgia non c’è linguaggio mistagogico, avverrà ai cristiani quello che Origene dice sia successo ai leviti incaricati di portare l’arca dell’alleanza avvolta con coperte e drappi. I cristiani che non comprendono la liturgia e i sacramenti, che non conoscono una partecipazione autentica e fruttuosa (cf. Sacrosantum concilium 11), portano sulle loro spalle i misteri di Dio come avvolti con coperte e drappi: li portano dunque come pesi, senza sapere cosa sono e quindi senza beneficiarne[16]. Mai va dimenticato ciò che preghiamo nel Prefazio comune IV: «Nam te non augent[, Domine,] nostra praeconia, sed nobis proficiunt ad salutem»[17].
3. Simboli e arte per la liturgia e per l’evangelizzazione
Dopo aver riflettuto sulla comunicazione mistagogica della liturgia, vorrei infine focalizzare l’attenzione su come l’arte possa essere a servizio della liturgia e dell’evangelizzazione.
Va certamente evidenziato che nella liturgia è decisiva l’ars celebrandi di tutta l’assemblea, di tutte le creature convocate e di chi la presiede. Se c’è quest’arte, allora appare anche la capacità simbolica di ogni atto, di ogni gesto, di ogni parola celebrata. Basterebbe pensare alla capacità simbolica della disposizione dell’assemblea che confessa talora di essere un popolo pellegrinante, talaltra di essere un popolo che si riconosce nella fraternità e nella carità del «comandamento nuovo» (cf. Gv 13,34; 15,12), ecc. Ma si pensi anche ai gesti con cui si presentano il pane e il vino, al gesto dello «spezzare il pane» (cf. Mc 14,22 e par.; Lc 24,30; 1Cor 11,24), talmente decisivo che nelle origini cristiane ha dato il nome alla celebrazione dell’Eucaristia stessa (klásis toû ártou, fractio panis). Occorre un’arte che sappia rendere il pane e il vino posti sull’altare segno della creazione di Dio e del lavoro, della cultura dell’uomo, realtà chiamate a essere trasfigurate, eucaristizzate nella liturgia[18]. Le creature devono essere strappate alla banalità a cui a volte le condanna la quotidianità per poter esprimere il mistero nella cui narrazione sono coinvolte. Per il vino, ad esempio, occorre apprestare non un semplice bicchiere ma il praeclarus calix – mi riferisco alle parole dell’istituzione secondo la Preghiera Eucaristica I (il cosiddetto Canone Romano): «Accipiens et hunc praeclarum calicem in sanctas ac venerabiles manus suas…»[19] –, il calice prezioso, il calice glorioso (come traduce il Messale italico), il calice dell’eccellenza[20]… Il praeclarus calix deve fare segno, deve esprimere il rispetto, il timor Domini, la riverenza verso ciò che contiene: il sangue del Signore. E ciò vale, mutatis mutandis, per tutte le creature coinvolte nella liturgia.
La liturgia ha bisogno dell’arte, sia in quanto liturgia dell’incarnazione sia perché non si può concepire una liturgia senza arte. La liturgia confessa la trasfigurazione della realtà e l’arte è capace di evocare in modo particolare questa trasformazione, di alludere a questo processo di metamorfosi che ha come soggetto lo Spirito santo. È dunque vero che la liturgia abbisogna del linguaggio dell’arte, espresso nell’architettura, nella scultura, nella pittura, nelle vetrate, nella musica. Nello stesso tempo, però, la liturgia cristiana deve discernere e giudicare quali opere d’arte possono entrare in essa e acquisire la capacità di essere concelebranti, di essere mistagogiche, in grado cioè di condurre al mistero di Cristo; oppure deve valutare se, al contrario, le opere d’arte costituiscono una contraddizione, un impedimento alla liturgia stessa[21]. Non si dimentichi che c’è un’arte religiosa, a volte straordinaria, che però non è adeguata, non ha la capacità di entrare nella liturgia. Oggi regna molta confusione sull’argomento, e per questo ci si avventura troppo facilmente sulle vie della sperimentazione e dell’improvvisazione, ma tale modo di procedere contraddice lo statuto della liturgia cristiana. Occorre pertanto ricordare che una cosa è l’arte religiosa, anche cristiana, e un’altra è l’arte cristiana liturgica: quest’ultima è giudicata a partire dalla sua capacità mistagogica. Non dovremmo mai dimenticare, in proposito, le parole dette da Henri Matisse (che destarono anche una certa sorpresa): «Tutta la mia opera è religiosa, ma non tutte le mie opere religiose possono stare in una chiesa».
Qual è dunque il fine a cui deve tendere l’arte quando vuole entrare nella liturgia? Con la sua bellezza, bellezza della materia e dell’arte umana, è chiamata a narrare la bellezza della presenza e dell’azione del Signore vivente, «per quem haec omnia, Domine, semper bona – e in questo bona è racchiuso anche il pulchra… – creas, sanctificas, vivificas, benedicis, et praestas nobis» (Preghiera Eucaristica I)[22]. Simboli e arte testimoniano la convinzione che l’invisibile esiste, che la liturgia è una finestra aperta sull’invisibile, che il credente vuole esercitarsi a vedere l’invisibile (cf. Eb 11,27), per restare saldo in un mondo in cui il visibile sembra essere l’unica possibilità di lettura. In un mondo limitato al visibile, e di conseguenza all’empirico, simboli e arte chiedono di essere letti, di essere presenti per aiutare gli uomini a una comprensione più profonda e totale della loro vocazione.
Detto altrimenti, il problema è quale simbolica, quale linguaggio e immaginario simbolico può attivare il desiderio spirituale dell’uomo attuale e aprire la sua mente e il suo immaginario verso l’eschaton e l’eterno, cosa già difficile di per sé, e oggi ancora di più per l’uomo contemporaneo costantemente di corsa, «in fuga». Questa simbolica (e arte) nella liturgia deve avere come fine quello di suscitare la capacità di gratuità e di contemplazione, non di consumo o di possesso; deve saper introdurre al senso del mistero, che non è affatto l’inconoscibile, ma ciò per il quale l’interesse e la ricerca non si esauriscono mai, anche quando lo si conosce parzialmente: il mistero infatti, e in particolare il mistero di Dio, diviene sempre più interessante, se-ducente, capace di condurre a sé, nella misura in cui a esso ci si avvicina progressivamente e se ne conosce qualcosa.
Va inoltre riconosciuto con chiarezza: la bellezza dei simboli e dell’arte nella liturgia deve sempre essere rivelativa di Dio, della sua azione, del suo amore fedele per questa creazione e per l’umanità intera; nello stesso tempo, però, essa richiede da parte del credente un cammino di discernimento, un cammino ascetico mai concluso, un cammino faticoso di ricerca del senso inscritto in ogni bellezza, la quale sempre rimanda a Dio, lui che è «speciei generator», «autore della bellezza» (Sap 13,3). Nessuna negazione, nessuna diffidenza verso la materia, verso le creature di questo mondo, verso l’opera delle mani dell’uomo. Occorre invece un’ascesi rigorosa affinché proprio nell’esperienza delle realtà sensibili siamo in grado di discernere le realtà invisibili ed eterne (cf. 2Cor 4,18). Ha scritto Bernardo di Clairvaux: «Dio è invisibile ma ha voluto “mostrarsi” nella carne e “vivere come un uomo tra gli uomini” (cf. Bar 3,38), perché gli uomini, creature di carne, non potevano amare se non nella carne. Solo così poteva condurli verso l’amore che dà la salvezza, l’amore per la sua persona»[23].
Sì, occorrono una lunga disciplina e una costante educazione di ogni cristiano, perché possa percepire la vera bellezza nell’arte la quale, se è autentica, insegna, fa memoria, emoziona, plasma il cristiano stesso che potrà dire: «amator factus sum pulchritudinis eius» (Sap 8,2)[24]. E noi dobbiamo credere, insieme alla tradizione cristiana orientale, che l’arte non solo può narrare l’agere Dei, ma può anche riflettersi sul cristiano che la legge e la abita, trasfigurandolo di gloria in gloria, a immagine di colui che è la fonte di ogni bellezza (cf. 2Cor 3,17-18). Egli sperimenterà così la verità delle parole del profeta Isaia: «Dominus erit pulchritudo tua» (Is 60,19).
Chiediamoci infine: la comunicazione mistagogica può essere un linguaggio fecondo anche per l’evangelizzazione? A rigore, proprio perché la liturgia è mistagogia, si potrebbe pensare che essa è una comunicazione riservata ai credenti, ai catecumeni e ai battezzati. E indubbiamente nell’antichità abbiamo testimonianza di una precisa táxis nell’avvicinamento e nella partecipazione ai misteri. Nella sua magistrale meditazione tenuta in occasione del XXIII Congresso Eucaristico Nazionale a Bologna, il 25 settembre 1997, l’allora cardinale Joseph Ratzinger avvertiva con parrhesía che «l’Eucaristia come tale non è immediatamente orientata» all’evangelizzazione, «al risveglio missionario della fede, [ma] si colloca piuttosto all’interno della fede e la nutre»[25]. La liturgia dunque è all’origine dell’evangelizzazione ma non è direttamente evangelizzazione nel suo essere celebrata, se non nel senso che fornisce un rinnovato buon annuncio, un vangelo sempre necessario ai credenti, dunque li evangelizza; per costoro la partecipazione al mysterium fidei presuppone un’iniziazione, un entrare nel mistero con la vita.
Tuttavia nelle creature di Dio e dell’uomo, nell’arte, può esserci una capacità di comunicazione che, sempre in sinergia con lo Spirito santo, conduce al mistero. Scriveva ancora Ratzinger pochi giorni prima di essere eletto Papa: «Nella civiltà dell’immagine, [l’arte può] esprimere molto di più della stessa parola, dal momento che è oltremodo efficace il suo dinamismo di comunicazione e di trasmissione del messaggio evangelico»[26]. Dunque l’arte al servizio dell’evangelizzazione? Non solo occorre rispondere affermativamente a questa domanda, ma bisogna anche riconoscere che talvolta l’arte è una delle vie più percorribili e più feconde, soprattutto in un contesto come quello attuale in cui manca un’agorà dove i credenti possano spiegare, fare apologia della fede che testimoniano nel mondo.
Una comunicazione, quella dell’arte, ispirata dalla Bibbia, dalla fede e dalla vita della chiesa, che può destare domande e suggerire significati non tanto in vista della «folgorazione rivelativa», ma in vista di un processo di «lievitazione»: le opere d’arte possono inoculare interrogativi, inquietudini, messaggi che raggiungono il cuore ci chi le legge e le contempla. Basta pensare alla propria esperienza personale: quante opere d’arte destano in noi che le contempliamo sentimenti di adorazione, preghiere, invocazioni, esultanze gioiose… Nei credenti questi atteggiamenti rinnovano la fede, mentre nei non credenti destano a volte desideri di «cercare Dio come a tentoni» (cf. At 17,27).
Conclusione
Ho cercato di riflettere con semplicità su alcune acquisizioni riguardo alla comunicazione mistagogica che, attraverso la liturgia e l’arte, deve condurre alla partecipazione al mistero di Dio: dalla celebrazione dossologica dei misteri al mistero della salvezza celebrato.
Credo – come dicevo all’inizio – che l’invito fatto dai padri sinodali nel ventesimo anniversario della chiusura del Concilio a proposito dell’urgenza della mistagogia non possa essere ristretto alla catechesi. Come ha chiesto più volte Benedetto XVI, tale invito deve essere compreso anche in riferimento alla comunicazione mistagogica della liturgia e della stessa arte, che nella liturgia entra come componente costitutiva[27]. Ancora oggi, infatti, i fedeli chiedono, fanno domande per poter fare esperienza di una partecipazione consapevole al mistero, come quelle del figlio minore che, all’interno dell’Haggadah pasquale ebraica, chiede al padre di famiglia: «Perché questa notte è diversa dalle altre notti?». E ancora oggi il mistagogo, Gesù Cristo, chiede all’assemblea: «Avete capito ciò che vi ho fatto?» (Gv 13,12).
Ma quali risposte sappiamo dare alle domande dei fedeli? I nostri linguaggi a quali codici attingono? Come comunichiamo per evangelizzare, per annunciare la buona notizia? Non rischiamo di trasmettere la buona notizia attraverso una cattiva comunicazione? Cosa apprestiamo affinché «la Parola faccia la sua corsa» (cf. 2Ts 3,1) tra gli uomini? E soprattutto – domanda che può riassumere e rilanciare in avanti tutte le precedenti – c’è nella chiesa la consapevolezza che tutto ciò che partecipa alla liturgia (spazio, edificio, tempo, creature, opere d’arte…) deve aiutarci a partecipare al mystérion, cioè alla comunione con il Signore?
[1] Relatio finalis Synodi episcoporum «Exeunte coetu secundo» (7 dicembre 1985) II, B, b, 2; in Enchiridion del Sinodo dei Vescovi, vol. I, 1965-1988, EDB, Bologna 2005, pp. 2322-2333.
[2] Cf. Benedetto XVI, Esortazione apostolica Sacramentum caritatis (22 febbraio 2007) 64: «La migliore catechesi sull’Eucaristia è la stessa Eucaristia ben celebrata. Per natura sua, infatti, la liturgia ha una sua efficacia pedagogica nell’introdurre i fedeli alla conoscenza del mistero celebrato». Si veda anche il n. 45. Tra i numerosi studi sulla mistagogia ricordo: T. Federici, «La mistagogia della chiesa», in E. Ancilli (a cura di), Mistagogia e direzione spirituale, Teresianum-OR, Roma-Milano 1985, pp. 163-245; E. Mazza, La mistagogia: una teologia della liturgia in epoca patristica, CLV-Edizioni liturgiche, Roma 1988; N. Albanesi, «La mistagogia: un modello di teologia sacramentaria», in Ephemerides Liturgicae 2 (1998), pp. 174-186; G. Boselli, «La mistagogia per entrare nel mistero», in Centro di Azione Liturgica (a cura di), Liturgia epifania del mistero. Per comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, CLV-Edizioni liturgiche, Roma 2003, pp. 89-102.
[3] In Missale romanum ex decreto sacrosanti oecumenici concilii Vaticani II instauratum, auctoritate Pauli PP. VI promulgatum, Ioannis Pauli PP. II cura recognitum. Editio typica tertia, Typis Vaticanis, A.D. MMII, p. 177.
[4] La traduzione italiana è nostra.
[5] Approfondendo l’itinerario mistagogico, Benedetto XVI mette in rilievo la necessità di tre elementi: l’interpretazione dei gesti e delle parole della liturgia alla luce degli eventi della salvezza; l’introduzione al loro senso e significato; la loro lettura antropologica, in modo che essi siano innestati nella vita umana (cf. Sacramentum caritatis 64). Di questo si nutre la comunicazione mistagogica.
[6] Cf. B. de Margerie, «Saint Irénée, exégète ecclésial de la récapitulation christocentrique», in Id., Introduction à l’histoire de l’exégèse. I, Les pères grecs et orientaux, Cerf, Paris 1980, pp. 64-94.
[7] Teodoro Studita, Antirretico 1,10 (PG 99,340C).
[8] Cf. L. Bouyer, Introduzione alla vita spirituale, Borla, Torino 1965, p. 52. Dello stesso autore si veda anche Mysterion. Dal mistero alla mistica, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 1998.
[9] «Ciò che fu visibile del nostro redentore, passò nei sacramenti»: Leone Magno, Discorsi 74,2 (PL 54,398).
[10] «[O Signore,] ti trovo nei tuoi sacramenti»: Ambrogio, Apologia di David 12,58 (PL 24,875).
[11] Cf. Basilio di Cesarea, Lo Spirito santo 16,39 (PG 32,440).
[12] Cf. Sacrosantum concilium 7: «Omnis liturgica celebratio … opus Christi».
[13] Cf. N. De Castro Teixeira, La comunicazione nella liturgia, Messaggero, Padova 2007, pp. 29-46.
[14] Cf. Prefazio della Preghiera eucaristica IV: «… per nostram vocem omnis quae sub caelo est creatura»; in Missale romanum, p. 591. Nella traduzione italiana del Messale il testo suona: «… anche noi, fatti voce di ogni creatura» (in Messale romano riformato a norma dei decreti del concilio ecumenico Vaticano II e promulgato da Papa Paolo VI, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 19832, p. 411).
[15] Cf. Benedetto XVI, Sacramentum caritatis 41.
[16] Cf. Origene, Omelie sui Numeri 5,1 (SC 415, p. 124).
[17] «I nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza[, Signore], ma ottengono per noi la salvezza» (traduzione nostra; testo latino in Missale romanum, p. 560).
[18] Cf. F. Cassingena-Trévedy, La bellezza della liturgia, Qiqajon, Bose 2003, pp. 45-53.
[19] In Missale romanum, p. 575.
[20] Ovviamente con ciò non si intende sostenere che il calice o altri oggetti liturgici debbano essere sfarzosi, il che costituirebbe un insulto al Cristo che resta povero anche quando viene celebrato liturgicamente. Più delle mie parole valgono in questo caso quelle giustamente famose di Giovanni Crisostomo: «Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurare la sua nudità. Non onorarlo in chiesa con vesti di seta, mentre lo lasci fuori intirizzito dal freddo e nudo. Colui che ha detto: “Questo è il mio corpo” (Mt 26,26) e che con la sua parola ha confermato il fatto, è lo stesso che ha detto: “Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare” (cf. Mt 25,42.44) e “Tutto quello che non avete fatto a uno di questi più piccoli, non lo avete fatto a me”(Mt 25,45). Il corpo di Cristo che sta sull’altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure, mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo quindi a pensare e a comportarci degnamente verso così grandi misteri e a onorare Cristo come egli vuole essere onorato … Quale vantaggio può avere Cristo se la sua mensa è coperta di vasi d’oro, mentre egli stesso muore di fame nella persona dei poveri? Saziate prima lui che ha fame e in seguito, se vi resta ancora del denaro, ornate anche il suo altare. Gli offri un calice d’oro e non gli dai un bicchiere d’acqua fresca? Che beneficio ne trae? Tu procuri per l’altare veli intessuti d’oro e a lui non offri il vestito necessario. Che guadagno ne ricava?» (Omelie sul Vangelo secondo Matteo 50,3-4 [PG 58,508-509]).
[21] Cf. A. Rouet, Art e liturgie, Desclée de Brouwer, Paris 1992, pp. 27-53; J.-Y. Hameline, Une poétique du rituel, Cerf, Paris 1997, pp. 73-90; F. Boespflug, «Art et liturgie: l’art chrétien du 21. siècle à la lumière de Sacrosanctum concilium», in Revue des Sciences Religieuses 78/2 (2004), pp. 161-181.
[22] «Attraverso di lui, tu, o Dio, sempre crei buone tutte le cose, le santifichi, le vivifichi, le benedici e le doni a noi» (traduzione nostra; testo latino in Missale romanum, p. 578).
[23] Bernardo di Clairvaux, Discorsi sul Cantico dei cantici 20,6 (SC 431, p. 138).
[24] Sulla bellezza molti sono oggi i contributi, ma spesso si tratta di studi carichi di retorica ambigua e confusa. Tra i pochi significativi ricordo: P. Marini, Liturgia e bellezza. Nobilis pulchritudo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2005; G. Mura (a cura di), La via della bellezza: cammino di evangelizzazione e dialogo, Urbaniana University, Città del Vaticano 2006; G. Ravasi, «E Dio vide che era bello: fede, bellezza, arte», in AA.VV., La nobile forma: chiesa e artisti sulla via della bellezza, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009, pp. 9-39; Id., «L’arte, “provocazione e ferita”» (conferenza tenuta presso il Monastero di Bose il 5 giugno 2010 a conclusione dell’VIII Convegno Liturgico Internazionale: «Liturgia e arte. La sfida della contemporaneità»; in corso di pubblicazione presso le edizioni Qiqajon).
[25] J. Ratzinger, «Eucaristia come genesi della missione», in Il Regno-Documenti 19 (1997), p. 589.
[26] Catechismo della Chiesa Cattolica. Compendio, Introduzione di Joseph Ratzinger (20 marzo 2005), San Paolo-Libreria Editrice Vaticana, Cinisello Balsamo-Città del Vaticano 2005, p. 9.
[27] Cf., ad esempio, Sacramentum caritatis 35: «La bellezza non è un fattore decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione».