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Le diciassette equazioni che hanno cambiato il mondo

di Carlo Maria Polvani

Un anno prima della sua morte, il matematico gallese Robert Recorde (1512 circa 1558), snervato dal dovere ripetere l’espressione «è uguale a» nel suo libro The Whetstone of Witte (La pietra per affilare l’intelletto), introdusse il simbolo di uguaglianza, commentando che «non ci fossero due cose più uguali» di due trattini orizzontali gemelli disposti l’uno sopra l’altro. Poco a poco, il segno grafico “=”, scalzando altri simboli concorrenti quale “æ” (in riferimento all’aggettivo æqualis), si impose nella raffigurazione del concetto di uguaglianza. Nell’uso previsto dal suo ideatore, tuttavia, il segno di uguale aveva una funzione precisa: unire due espressioni aritmetiche che avessero la stessa risposta all’interno di uno degli strumenti essenziali della matematica, la æquatio (termine popolarizzato da Fibonacci nel Liber abaci del 1202).

L’efficacia dell’equazione deriva dal fatto che il rapporto di eguaglianza che essa stabilisce si può esprimere in vari modi, introducendo semplicemente, in ambo i lati dell’equivalenza, un valore identico (per esempio, dandosi 2+3=5 e sottraendo 2 da entrambe le espressioni, si ottiene 2+3–2=5–2 e quindi, 3=5–2). Questa stessa qualità permette di risolvere un’equazione quando essa racchiude un’incognita (per esempio, dandosi 2+x=5 e sottraendo 2 da entrambi le espressioni, si ottiene 2+x–2=5–2 e quindi, x=3). E, più generalmente, essa stabilisce delle relazioni certe fra dei valori variabili contenuti in un’equipollenza (per esempio, dandosi 2+x=y, si ha la certezza che quando x vale 3, y vale per forza 5; e rispettivamente che quando y vale 5, x vale per forza 3).

Questa qualità spiega perché tale strumento matematico sia diventato così duttile nel descrivere le leggi fondamentali della fisica e della chimica. Si pensi alla “equazione di stato dei gas perfetti” — completata a partire dei lavori dei grandi chimici: Robert Boyle (1627-1691), Jacques Charles (1746-1823), Amedeo Avogadro (1776-1856) e Joseph Louis Gay-Lussac (1778-1850) — P·V=n·R·T, che si può descrivere in questo modo: il valore della pressione (p) moltiplicato per quello del volume (v) è uguale a quello della quantità del gas (n) moltiplicato per quello della temperatura (t) e di una costante universale (r). Questa equivalenza permette di calcolare una incognita quando se ne conoscono le altre tre (per esempio, la pressione di un gas, quando ne si sa il volume, la quantità e la temperatura). E più generalmente, di comprendere il comportamento di un gas a partire dalla relazione obbligatoria fra la sua pressione, il suo volume, la sua quantità e la sua temperatura (per esempio, capire perché, in montagna, dove la pressione atmosferica è più bassa, l’acqua bolla a una temperatura inferiore ai 100° Celsius).

Le potenzialità di questo strumento matematico diventano ancora più indiscutibili quando esso diventa funzionale nello sviluppo d’innovazioni ingegneristiche (per esempio, il prevedere che a pressioni più alte le temperature di evaporazione siano superiori, consentì al calvinista francese Denis Papin — che anticipando la revocazione dell’Editto di Nantes era fuggito a Londra per diventare assistente del sullodato Boyle — di ideare le digesteur, autocriticamente definendolo «un moyen de cuisson un peu brutal» come lo sperimentarono molte massaie, a loro spese, prima che le pentole a pressione fossero munite di valvole di sicurezza).

In altre parole: uno strumento logico nelle mente dei matematici è diventato un attrezzo di scoperta scientifica e di applicazione ingegneristica nelle mani di ricercatori nelle scienze naturali e d’inventori in quelle applicate. Questo è forse il messaggio più basilare dell’opera del professor Ian Stewart, Le 17 equazioni che hanno cambiato il mondo, appena pubblicata dalla Einaudi. Non è la prima volta che il docente dell’università di Warwick si distingue per le sue capacità di divulgatore scientifico; ma, nell’opera appena completata, egli è riuscito a mettere a disposizione dei suoi lettori una piccola enciclopedia del sapere scientifico. In diciassette capitoli, altrettante equazioni sono sviscerate e il loro ruolo nello sviluppo del sapere scientifico evidenziato, facendo risaltare come le relazioni stabilite dalle eguaglianze matematiche siano state indispensabili nel comprendere le leggi dell’universo e nel saperle sfruttare.

L’equazione della legge gravitazionale universale — che impone che la forza di attrazione fra due corpi sia proporzionale alle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza che le separa — prevede i percorsi ellittici dei pianeti intorno al sole ed è stata strumentale nello sviluppo dei navigatori satellitari. L’equazione della legge della distribuzione normale — che statuisce che la probabilità di osservare un particolare valore incluso in un gruppo sia dipendente dallo scarto tipo fra il valore stesso e la media dei valori dello stesso gruppo — anticipa la possibilità del verificarsi di uragani di particolare violenza ed è utilizzata per effettuare vendite allo scoperto in borsa. L’equazione sulla propagazione delle onde — che decreta che l’accelerazione della diffusione di una vibrazione sia dipendente dalla spostamento medio dei segmenti contigui del mezzo che la veicola — spiega la produzione di un suono da parte di una corda di un violino che vibra sotto un archetto ed è impiegata dalle apparecchiature che verificano l’intensità dei terremoti per anticiparne pericolose conseguenze quali gli tsunami.

Le equazioni senza le quali il nostro mondo non sarebbe quello che è, sono presentate in forma concisa e accattivante dal Laureato 1995 del Michael Faraday Prize che, anche quando considera delle equipollenze contenenti degli strumenti matematici più avanzati — come il calcolo infinitesimale dell’equazione Navier-Stokes che descrivendo la dinamica dei fluidi, è usata per fare volare gli aeroplani — accompagna il lettore, passo per passo. Ma forse, quello che colpisce di più nell’opera del membro della Royal Society, è il notare che, a volte, lo sviluppo teorico della matematica fu indipendente o comunque ben antecedente alle sue applicazioni nelle scienze naturali.

L’equazione F–E+V=2 (in tutti i poliedri regolari, il numero delle facce, F, meno quello degli spigoli, E, più quello dei vertici V, uguale a 2) magistralmente dimostrata da Leonardo Eulero (1707-1783), gettò le basi per la topologia senza la quale, nel 1953, James Watson e Francis Crick non avrebbero potuto svelare i segreti della struttura a doppia ellissi tipica dell’acido desossiribonucleico (Dna). Analogamente, l’equazione che diede nascita ai numeri complessi 2–1=0 (introducendo l’immaginario numero iota il cui quadrato equivale a –1) fece esclamare Gerolamo Cardano (1501-1576) che tale nuovo numero fosse «tanto astruso quanto inutile» allorché, nel 1900, esso si rivelò indispensabile per definire i principi della meccanica quantistica introdotti da Max Planck. Leggendo il lavoro del professor Stewart, si è portati quindi a interrogarsi sulla natura stessa della relazione fra la matematica e la fisica e la chimica. Nel 1960, il premio Nobel Eugene P. Wigner (1902-1995) pubblicò un influente articolo su quella che definì «l’irragionevole efficacia della matematica nelle scienze naturali» senza riuscire però a riconciliare due percezioni divergenti.

Galileo Galilei, nel Saggiatore (1623), sosteneva che il libro della natura fosse scritto nella lingua matematica e che senza di essa, cercare di capirne le leggi equivaleva ad «aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto». All’opposto, Bertrand Russell, in An Outline of Philosophy (1927), sospettava che la nostra mancanza di conoscenza dell’universo spiegasse il perché ne intendessimo unicamente gli aspetti matematici. Non si saprebbe a chi dei due dare ragione; senonché, risulta incontrovertibile che le equazioni matematiche, nel contesto della formulazione delle leggi naturali, operano efficacemente perché decretano un nesso causale indubbio fra le componenti principali di uno stesso fenomeno. Il rapporto di uguaglianza rappresenta pertanto un utile strumento per caratterizzare le relazioni di causalità, senza le quali una conoscenza certa dei fenomeni è difficilmente raggiungibile. Il grande poeta, lui sì, aveva sicuramente ragione: «Felice è colui che ha potuto conoscere la causa delle cose» (Felix qui potuit rerum cognoscere causas atque metus omnis et inexorabile fatum subiecit pedibus, Virgilio, Georgiche ii, 489-490) «sottomettendo ogni paura e l’implacabile destino».

Pubblicato in L'Osservatore Romano, 08/02/2017