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Buchi neri e buche di biliardo

In un saggio di George Musser le teorie sul funzionamento dell’universo

di Carlo Maria Polvani

Nell’elusiva ricerca di una uniformità della data di celebrazione della Pasqua cristiana, il concilio di Nicea indicò che il prodursi del primo plenilunio di primavera nell’emisfero boreale avrebbe dovuto essere verificato per mezzo di calendari prestabiliti e non per osservazioni astronomiche dirette. Curiosamente, delle condizioni ideali per queste ultime si verificano in alcune notti proprio intorno al primo novilunio successivo all’equinozio di marzo, quando migliaia di appassionati muniti di telescopi amatoriali si cimentano nel cosiddetto Messier Marathon, che consiste nell’osservare i «cent dix objets du ciel profond» classificati nel Catalogue des nébuleuses et des amas d’étoiles dall’astronomo loreno Charles Messier (1730-1817). Ancor più curiosamente, furono proprio le radiazioni elettromagnetiche provenienti dall’Ammasso della Vergine — la regione dell’omonima costellazione così densa di galassie da testare la resistenza fisica e psicologica degli astrofili durante la suddetta maratona — a permettere all’Event Horizon Telescope — il progetto di collaborazione fra decine di stazioni radio-telescopiche di tutto il mondo coordinato dall’Haystack Observatory del Massachusetts Institute of Technology — di ottenere l’immagine di un buco nero situato al centro della galassia identificata con il Numéro 87 del celeberrimo Catalogo del 1774.

La perizia tecnica e la passione scientifica senza le quali la scoperta pubblicata il 10 aprile del 2019 in «The Astrophysical Journal» sarebbe stata impossibile, sono state unanimemente elogiate. Ma la portata di questa eccezionale individuazione andrebbe anche considerata nel contesto delle riflessioni proposte dal senior staff editor della rivista «Scientific American», George Musser, nel suo saggio appena pubblicato dalla Adelphi (Biblioteca Scientifica n. 61): Inquietanti azioni a distanza. Il fenomeno che ridisegna lo spazio e il tempo e le sue conseguenze sui buchi neri, il Big Bang e la teoria del tutto (Milano, 2019, pagine 348, euro 28).

Cento anni dopo la morte di Newton, nasceva uno degli scienziati più avanguardistici del suo tempo: John Michell (1742-1793). Figlio di un pastore anglicano, divenne fellow al Queen’s College di Cambridge e membro della Royal Society. Ordinato a sua volta nella Chiesa d’Inghilterra, lasciò l’università accentando l’incarico di parroco del villaggio di Thornill vicino a Leeds, da dove continuò le sue ricerche scientifiche. Michell si interessò a un aspetto particolare della legge di gravitazione universale — la “velocità di fuga” — che misura la velocità minima che un oggetto deve raggiungere per poter sfuggire dall’attrazione di un pianeta o di una stella. Stimando giustamente che nel caso della Terra essa equivaleva a 40.000 chilometri orari circa, speculò l’esistenza di stelle aventi una massa talmente gigantesca da esercitare una forza sufficiente per intrappolare la luce, che viaggia alla costante universale di più di 1.000.000.000 chilometri orari. Battezzò tali astri dark stars e previde con estrema lungimiranza, che l’esistenza di «stelle scure», che ovviamente non avrebbero potuto essere avvistate con dispositivi ottici visto che inghiottivano la luce stessa, avrebbe potuto essere confermata solo misurando gli effetti della loro immensa forza di gravità sulla materia nelle loro prossimità. Non avendo a sua disposizione gli strumenti indispensabili per verificare la sua ipotesi, disegnò comunque un esperimento atto a misurare con precisione la forza di gravità, ma morì prima di metterlo in atto.

Per fortuna, un suo amico a Cambridge, Henry Cavendish (1731-1810) — che come Michell aveva lasciato la sua Alma Mater, ma per ben altre ragioni visto che era talmente benestante da finanziare le sue ricerche allestendo un suo laboratorio privato a Londra — portando a compimento detto esperimento, misurò con esattezza la cosiddetta «costante di gravitazione universale» che permette di calcolare, conoscendo la distanza fra due oggetti e la loro massa, la forza di attrazione che esercitano l’uno sull’altro. Né il facoltoso Lord Henry, né l’umile Rector John potevano certo immaginare però che il loro contributo sarebbe stato necessario a Einstein nella costruzione della equazione fondamentale sulla quale si fonda la teoria della relatività generale.

Quest’ultima, pubblicata nel 1915, attrasse subito l’attenzione del matematico e astronomo tedesco, Karl Schwarzschild (1873-1916; cognome che bizzarramente significa «scudo nero»), che riuscì a risolvere tale equazione e quindi a proporre un metodo per stimare la spazio sferico — oggi chiamato “raggio di Schwarzschild” — dentro il quale la forza di gravità di una stella è così forte da rendere la velocità di fuga superiore a quella della luce. Poiché quest’ultima è ritenuta insuperabile, le stelle il cui diametro risulta superiore al loro raggio di Schwarzschild furono qualificate «gravitazionalmente collassate su se stesse», fino a quando il fisico John Wheeler (1927-2008) popolarizzò, al posto di questa gravosa nomenclatura, il termine di black hole e con esso quello di event horizon, per descrivere la distanza di vicinanza dai buchi neri dentro la quale la loro attrazione deve considerarsi invincibile.

I risultati raggiunti dall’Event Horizon Telescope sciolgono molti dubbi sull’esistenza stessa dei buchi neri — della quale molti scienziati, compreso lo stesso Einstein, rimasero scettici — ma non dissipano tantissime domande a essi relativi. Non è ancora chiaro se i black holes si costituiscano a seguito di collisioni ad alta energia fra stelle o per implosione di un singolo astro a seguito del superamento di una specifica concentrazione di massa denominata «limite Tollman-Oppenheimer-Volkoff». Non è neppure possibile determinare cosa ne sia della materia assorbita nei buchi neri, poiché non si conoscono i parametri secondo i quali, al loro interno, si declina una cosiddetta «singolarità dello spazio-tempo». Le possibili soluzioni a questi enigmi — come dimostra dettagliatamente Musser nel suo saggio — aprono inevitabilmente un dibattito fra due concezioni opposte della fisica, che riposano rispettivamente su due principi mutualmente esclusivi: quello della “località” e quello della “azione a distanza”.

Il primo difende l’esistenza di un universo ordinato, all’interno del quale le interazioni fra gli oggetti dipendono dal contatto degli uni con gli altri. Si pensi, nell’ambito della meccanica classica, al gioco del biliardo. La velocità e la direzione impressa da un palla in movimento a una palla ferma si produce solo con il contatto fra le due o tramite un’altra; e le variabili del trasferimento di energia fra di loro sono calcolabili con certezza. Ma nell’ambito della meccanica quantistica, si osservano interazioni fra particelle subatomiche completamene isolate l’una dall’altra, tanto nello spazio quanto nel tempo. Per spiegare questa “stregoneria”, fu pubblicato nel 1935, il «paradosso di Einstein-Podolski-Rosen» che addebitava tali «inquietanti azioni a distanza» (spukhafte Fernwirkung) a presunte imperfezioni della teoria dei quanti; ma lo stesso anno, il «paradosso del gatto di Schrödinger» suggeriva invece che le osservazioni erano ben reali poiché dovute a un «aggrovigliamento» (Verschränkung, più comunemente conosciuto nel mondo scientifico con la dicitura inglese di entanglement) quantistico (di cui si avrebbe avuto ulteriore conferma trent’anni dopo con il teorema della disuguaglianza di Bell), rimettendo quindi in questione la percezione stessa del mondo sensibile che la fisica fornisce.

Ha ragione, quindi, Musser a suggerire che la conferma dell’esistenza di buchi neri implica che l’universo, che spesso sembra così rassicurante per la regolarità delle sue leggi, sia invece un luogo «selvaggio e capriccioso, pieno di insidie e di arbitri». Il cosmo sarebbe sì un immenso tavolo da biliardo con un tappetino verde deformabile (lo spazio-tempo) sul quale si scontrano delle palle (stelle, pianeti e satelliti), ma dotato di enormi buche senza fondo che le inghiottirebbero chissà dove. Questa possibilità, al contempo affascinante e inquietante, spiegherebbe perché il padre dell’entaglement, Erwin Schrödinger (1887-1961), fuggendo dalla sua patria dopo l’Anschluss, si dedicò alla biologia, inseguendo una teoria che spiegasse l’emergere dell’ordine fragile della vita dal caos incontenibile dell’universo. Uno dei suoi connazionali rimasto a Vienna dopo il 1938, Ludwig von Bartalanffy (1901-1972), che sviluppò anch’egli un sistema per spiegare l’organizzarsi della vita in termini fisico-biologici, disse di lui: «Non seppe vedere quello che nessuno aveva ancora visto, ma pensare quello che nessuno aveva ancora pensato, a partire da quanto tutti avevano già visto».

Parafrasando i Rolling Stones in Paint it Black – inno contro la guerra del Vietnam al primo posto della hit parade del 1966 e sfondo musicale nella sequenza finale del film Full Metal Jacket di Stanley Kubrick – «it’s not easy facing up to the facts, when your whole world is black».

Pubblicato in L'Osservatore Romano, 12/06/2019.