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Attrazione fatale

di Carlo Maria Polvani

Ha appena compiuto vent’anni il progetto matematico conosciuto con l’acronimo Gimps (Great Internet Mersenne Prime Search) che ha come scopo di individuare dei numeri primi sempre più grandi. L’ultimo è stato identificato tre anni fa da Curtis Cooper dell’università del Missouri ed è cosi lungo che non basterebbero migliaia di pagine per scriverlo; per questo, lo si rappresenta utilizzando la squisita formula escogitata dal religioso dell’Ordo minimorum Marin Mersenne (1588-1684), amico e compagno di Réné Descartes (1596-1650) al prestigioso collegio Henry iv di La Flèche: 2n–1 (in casu n essendo uguale a 57.885.161, 2 moltiplicato per se stesso quasi 58 milioni di volte meno 1). Commentando la scoperta di Cooper, Roberto Volpi, in Il fascino dei numeri primi, un universo da esplorare, pubblicato nella sezione Polemiche culturali di «Vita e Pensiero», sesto numero del 2015, ha proposto una riflessione sui numeri primi dagli stimolanti risvolti filosofico-teologici. Per capirne la pertinenza, è utile addentrarsi in detto universo, con umiltà.

I numeri interi positivi (0, 1, 2, 3...) sono detti “naturali” perché si distinguono dai numeri “reali” che invece hanno uno sviluppo decimale (per esempio 2,75 o 13,38673). I numeri naturali possono essere o “composti” o “primi”. Un naturale è composto quando esiste almeno un altro numero naturale più piccolo di esso che non sia 1 e che lo possa dividere in un altro naturale (6 è composto poiché 6 diviso 3 è uguale 2). In caso contrario è primo, poiché dividendolo per qualsiasi naturale più piccolo, eccetto 1, si ottiene un numero reale (5 è primo, giacché: 5 diviso 4 è uguale 1,25; 5 diviso 3 è uguale 1,67; e 5 diviso 2 è uguale a 2,50). Ne consegue che: tutti i numeri pari (eccetto 2) sono composti perché sono multipli di due; che tutti i naturali che finiscono per 5 (eccetto 5) sono composti poiché sono multipli di 5; e anche che tutti i naturali la cui somma delle cifre è uguale a un multiplo di tre, non possono essere primi, poiché sono multipli di 3. Queste semplicissime osservazioni spiegano probabilmente perché gli uomini dovettero cimentarsi con i numeri primi sin dai tempi preistorici.

All’incirca 20mila anni fa alcuni homo sapiens del lago Edoardo nella Repubblica Democratica del Congo scalfirono una serie di tacche su un osso di babbuino, rappresentative di un sistema decimale atto a effettuare moltiplicazioni e divisioni. Il cosiddetto “osso di Ishango”, ritrovato nel 1960 da Jean de Hinselin de Braoucourt (1920-1998) e conservato a Bruxelles dall’Institut royal des Sciences naturelles de Belgique, riporta tre colonne costituite da una serie di numeri; quella di sinistra è dedicata proprio ai numeri primi fra il 10 e il 20, ossia: 11, 13, 17 e 19. Se l’utilità dei numeri primi fu quindi presto riconosciuta come imprescindibile, più difficile risultò lo sforzo per la loro sistematica identificazione.

Tanto più grande è un naturale, infatti, quanto più difficile il compito di dimostrare che sia primo; poiché mentre per individuare un numero composto è sufficiente trovare un solo naturale che sia suo divisore, per riconoscere un primo bisogna dimostrare che le divisioni con tutti i numeri naturali più piccoli di esso risultano in un reale.

Ben tre dei tredici libri che compongono gli Elementi di Euclide opera il cui numero di edizioni, più di mille, la più interessante delle quali si trova nella Biblioteca Vaticana, è inferiore solo a quelle della Bibbia — considerano proprio la singolarità dei numeri primi. Essendo la collezione di teoremi che il grande matematico di Alessandria raccolse durante il regno di Tolomeo i (323-283 prima dell’era cristiana) la base, oltre che della geometria anche della cosiddetta “teoria dei numeri” (per esempio il ramo della matematica che si occupa dei numeri interi), tutti i grandi matematici si sono dovuti confrontare con una intuizione espressa nel libro ix: «I numeri primi sono più di una qualsiasi moltitudine assegnata di numeri primi».

Che ci fosse un’infinità di numeri primi fu poi confermato da Leonardo Eulero (1707-1783), ma quello che affascinò subito i matematici antichi, al punto da disegnare algoritmi di identificazione dei primi come il brillantissimo “crivello di Erastotene” di Cirene (275-195 prima dell’era cristiana), fu il fatto che i primi potessero essere usati per scrivere qualsiasi composto nella sua forma più basilare. Si consideri per esempio 720 che è il risultato della moltiplicazione dei numeri dal 2 al 6: se 720=2x3x4x5x6, allora 720=2x3x(2x2)x5x(2x3) e pertanto 720=2x2x2x2x3x3x5. Quest’ultima formula è da ritenersi la più fondamentale di tutte visto che i primi, 2, 3 e 5 non possono più essere smembrati come si è fatto invece per i composti 4 e 6.

Questa qualità, che è diventata determinante nella crittografia asimmetrica — è detta asimmetrica la scrittura in codice nella quale la formula usata da chi decifra un messaggio è diversa da quella usata da colui che lo ha criptato — che è alla base del sistema dei pagamenti digitali moderni, è la causa ultima di problemi matematici fondamentali, a volte irrisolti a tutt’oggi, che riguardano la frequenza dei primi e la loro relazione con i numeri naturali. Si pensi, per esempio alla congettura di Christian Golbach (1690-1764) che prevede che ogni numero pari possa essere scritto come la somma di due numeri primi, come: 8=5+3 o 12=5+7; o alla teoria dei numeri primi gemelli presentata nella sua forma più primitiva da Alphonse de Polignac (1780-1847) che presume l’esistenza di coppie infinite di numeri primi separati da un numero in mezzo, come: 5 e 7 o 17 e 19 (da qui l’ispirazione di Paolo Giordano per il romanzo che vinse il Premio Strega nel 2008, La solitudine dei numeri primi); o, infine, l’ipotesi di Marie-Sophie Germain (1776-1831) che studiò quei numeri primi che moltiplicati per due danno un altro numero primo se si aggiunge 1, come: 5 poiché (5x2)+1=11, ma non 7, visto che (7x2)+1=15. Né il geniale Pierre de Fermat (1601-1665), né il princeps mathematicorum Carl Friedrich Gauss (1777-1855) seppero resistere all’attrazione fatale dei numeri primi, i quali grazie al fascino esercitato su Bernhard Riemann (1826-1866), diventarono protagonisti anche dell’aspetto matematico della Teoria generale della relatività.

Con tali premesse, come biasimare Volpi quando afferma che pur essendo all’interno dei numeri interi, i primi formano «un universo a se stante poiché più costitutivi e più fondanti»? E come non raccogliere la sua sfida quando suggerisce che sebbene l’insieme dei naturali e l’insieme dei primi siano entrambi infinti, le qualità dei numeri primi sono tali da fare sospettare che l’universo dei primi e l’universo dei naturali non siano «nello stesso ordine di infinità»? Le conseguenze di tali suggerimenti non andrebbero minimizzate, poiché il concetto stesso di infinità potrebbe uscirne, filosoficamente e forse anche teologicamente parlando, reinterpretato.

La provocazione di Volpi, infatti, non può non ricordare quella di Georg Cantor (1845-1918). Il padre della teoria degli insiemi, nonché gran cultore di filosofia e di teologia, studiò la possibilità di insiemi infiniti più grandi di altri insiemi infiniti, poiché composti loro stessi da insiemi infiniti. Conscio che le sue proposte avrebbero sconvolto più di un matematico — Jules Henry Poincaré (1854-1912) lo attaccò ferocemente — e più di un teologo — intrattenne una corrispondenza con gesuiti del calibro del cardinale Johann Baptist Franzelin (1816-1886), di Tilman Pesch (1836-1899) e di Joseph Hontheim (1858-1929) — lo scienziato tedesco scrisse persino a Papa Leone XIII, per dimostrare che la sua tesi non solo non rimetteva in questione l’assoluta infinitezza di Dio, ma anzi, sarebbe stata un efficace baluardo contro il determinismo e il materialismo.

Un altro matematico prussiano, David Hilbert (1862-1943), considerato fra i più influenti dell’era moderna e formulatore dei celeberrimi 23 Probemi di Hilbert — i 23 quesiti più difficili della matematica, il primo dei quali riguarda proprio i lavori di Cantor e l’ottavo riguarda appunto la frequenza della distribuzione dei numeri primi — affermava, con fideismo irriverente, che «nessuno potrà cacciarci dal Paradiso che Cantor ha creato» per noi. Volpi ne ha fornito un’ulteriore prova.

Pubblicato in L'Osservatore Romano, 26/01/2016