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Ragione e sentimento

Il principio di omeostasia secondo Antonio Damasio

di Carlo Maria Polvani

Incaricati dal Ministère de l’Instruction Publique — poco dopo il varo della Loi du 5 juillet 1904, prima pietra miliare della laïcité — di sviluppare una misurazione attendibile dello sviluppo intellettuale degli scolari, Alfred Binet (1857-1911) e Théodore Simon (1873-1961) misero a punto una échelle métrique de l’intelligence, basata su una valutazione alquanto innovatrice: a un ragazzo di 8 anni che manifestava capacità mentali caratteristiche di uno di 10, si attribuiva il punteggio equivalente alla moltiplicazione delle due età: 8x10=80. I lavori di Louis Stern (1971-1938) alla Universität Breslau — considerato il padre del quoziente intellettuale, anche per aver introdotto il termine di “qi” o “iq” — permettevano nel 1916, a Lewis Terman (1877-1956) della Stanford University di definire la Stanford-Binet Intelligence Scale (a tutt’oggi nella sua quinta edizione) che, più raffinatamente, attribuiva punteggi dividendo l’età mentale del bambino con quella cronologica e moltiplicando il risultato per 100 (cosicché, il ragazzo dell’esempio precedente, avrebbe ricevuto 125=[10/8]x100). Perfezionato da David Wechsler (1896-1981) un test atto a misurare il qi degli adulti, si decise di assegnare al risultato medio il punteggio di 100, attribuendo agli altri rilevamenti, che si configuravano in forma di curva a campana (o curva di Gauss), punteggi distribuiti in sezioni di 15 punti per ogni scarto quadratico di dispersione dalla media stessa (così facendo, un qi fra 100 a 115 venne a indicare una valutazione sostanzialmente nella media, da 116 a 129 superiore alla media, da 130 a 144 significativamente superiore e da 145 in su, nettamente superiore).

I lavori di altri illustri psicologi – come il britannico Charles Spearman (1863-1945) e lo statunitense Louis Thurstone (1887-1955) — portarono a ulteriori miglioramenti della parametrizzazione del qi ma causarono anche l’emergere di spinose questioni su cosa esso misurasse effettivamente — e quindi, se esistessero diversi tipi di intelligenza — e su quali fossero i fattori genetici e ambientali che condizionassero i rilevamenti — e quindi, quanto l’educazione e le condizioni familiari influenzassero i punteggi ottenuti. L’apparizione nel 1981 del saggio di Stephen Jay Gould (1941-2002), The mismeasurement of man, favorì l’affermarsi di valutazioni di altri aspetti dell’acume umano fra cui il cosiddetto quoziente emozionale (qe) che — definito a partire dagli anni Sessanta ma diventato popolare solo nel 1995 grazie a un best-seller del divulgatore scientifico Daniel Goleman, Emotional intelligence: why it can matter more than iq — si prefiggeva lo scopo di misurare le abilità di sentire, usare, capire e gestire le emozioni per incanalare i pensieri e le azioni.

Negli ultimi venti anni, i risultati del Msceit — il John Mayer, Peter Salovey and David Caruso Emotional Intelligence Test dal nome dei tre scienziati che lo disegnarono — sembrano essere correlati non solo alla capacità di un individuo nel stabilire interazioni familiari e sociali fruttifere, ma anche alle performance lavorative e alle attitudini di leadership del medesimo. Non mancano, pertanto, indizi che indichino che le emozioni — anche se non esiste un consenso sul considerare queste ultime delle forme di intelligenza vere e proprie — giochino un ruolo decisivo di integratori e potenziatori delle facoltà raziocinanti che permettono inoltre, se ben gestite, di raggiungere alti livelli di funzionalità sociale.

Ed è proprio in questo contesto che appare utile segnalare il recente contributo di Antonio Damasio, Lo strano ordine delle cose. La vita, i sentimenti e la fabbrica della cultura (Adelphi, 2018). Per capire l’argomento del neurologo alla guida del Brain and Creativity Institute dell’Università del California Meridionale, bisogna accettare l’uso estensivo che egli fa del concetto di omeostasi. Il termine di oμoιoς (simile) στασις (stato) fu coniato dal famoso fisiologo americano Walter B. Cannon (1871-1945), anche se la prima osservazione del fenomeno si suole attribuire all’altrettanto famoso fisiologo francese Claude Bernard (1813-1878). L’omeostasi, nella sua accezione classica, descrive fenomeni metabolici di autoregolazione caratterizzati da processi di retroazione (feedback) — ossia, a mo’ di regolazione di temperatura in una stanza grazie a un sistema di riscaldamento dotato di termostato — come quello del mantenimento del livello di glucosio nel sangue; appena le cellule beta del pancreas registrano un aumento del glucosio producono dell’insulina che inibisce le loro consorelle alfa nella produzione del suo ormone antitetico il glucagone; tanta insulina e poco glucagone stimolano il fegato a trasformare il glucosio in grassi, fino a quando il livello di zucchero nel sangue non ridiscende; a quel punto, le cellule beta smettono di produrre insulina permettendo alle alfa di aumentare la produzione di glucagone, che ordina al fegato di rovesciare la procedura, degradando i grassi in zuccheri cosicché entrino nel sangue.

Equilibri omeostatici come questo — lo sanno bene i diabetici — sono così efficaci e precisi da essere ubiqui a livello fisiologico (e.g. il controllo del ciclo mestruale, la regolazione del sonno-veglia, il mantenimento dell’equilibrio di elettroliti essenziali quali sodio e potassio ecc...). Ma secondo Damasio, l’omeostasi è così pervasiva da estendersi ben al di là dei meccanismi metabolici. Un «imperativo omeostatico», infatti, spiegherebbe non solo alcuni aspetti della selezione naturale (per esempio il successo competitivo di forme di vita primitive quali i batteri) e non solo vari aspetti della complessificazione progressiva degli esseri viventi (per esempio l’emergere dei sistemi nervosi delle forme di vita più evolute quali i vertebrati), ma anche l’origine della cultura che sarebbe emersa, con particolare successo nell’homo sapiens, grazie a una «regolazione omeostatica» delle facoltà intellettive per mezzo delle emozioni. Tradotto in termini molto riduttivi, sensazioni come la felicità e la tristezza, sarebbero state i regolatori — l’insulina e il glucagone, nell’illustrazione usata poc’anzi — delle facoltà raziocinanti, il livello ideale di zucchero nel sangue per il buon funzionamento dei muscoli e del cervello, per completare l’analogia previa.

Leggendo la tesi presentata con indubbio estro dal membro della National Academy of Medicine e della American Academy of Arts and Sciences non si può non riconoscere che essa, corredata da dati attendibili tratti dalla biologia e della neurologia, risulti affascinante; ma per quanto geniale possa apparire di primo acchito, essa necessita di ulteriori prove scientifiche. Forse Damasio non le ritiene del tutto necessarie vista la sua passione filosofica per Baruch Spinoza su cui d’altronde ha scritto numerosi saggi (Alla ricerca di Spinoza. Emozioni, sentimenti e cervello, Adelphi, 2003). Lo stesso docente portoghese naturalizzato americano non cela infatti, che la continuità fra omeostasi biologica e omeostasi culturale da lui tracciata sia intimamente collegata al concetto spinoziano di conatus (impeto). Nel suo capolavoro del 1662, Ethica ordine geometrico demonstrata, il filosofo olandese, avendo postulato che «ogni cosa si sforza, per quanto da essa dipende, di perseverare nel suo essere» (Liber III, Propositio 6), vede in tre passioni — appetitus, laetitia e tristitia — le forze fondamentali della perpetuazione insite in ogni forma di vita: giacché l’appetitus che spinge verso la perfezione dell’essere produce laetitia, mentre quello che vi si oppone, tristitia.

Indubitabilmente incisiva risulta l’argomentazione di Damasio in favore dell’intuizione di Spinoza sul ruolo delle emozioni umane nel contesto dei dibattiti razionalisti del suo tempo che videro coinvolti René Descartes, Thomas Hobbes e Gottfried Leibniz (L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, 1995). Ma più evanescente risulta quella atta a inquadrare il concetto di omeostasi nel contesto di dibattiti scientifico-filosofici più recenti. Verrebbe da chiedere infatti: l’omeostasi sarebbe riconducibile all’élan vital di Henry Bergson (lo slancio vitale connaturale a ogni essere vivente che, nel caso dell’uomo, lo spinge verso un fine soprannaturale) o al contrario, sarebbe il meccanismo basilare di cooperazione fra le hasard et la necessité di Jacques Monod (il caso e la necessità, da sole, determinano il continuo emergere di forme di vita che non possiedono alcuna finalità trascendente)? Questa ambivalenza irrisolta è evidente persino negli scritti di un altro autore molto caro a Antonio Damasio, Marcel Proust che, a proposito delle emozioni generate dal sentimento più umano che si possa immaginare, l’amore, scriveva: On désire être compris, parce qu’on désire être aimé, et on désire être aimé parce qu’on aime (Albertine disparue, nella À la recherche du temps perdu, volume 15), aggiungendo tragicamente però che, proprio per questo: La compréhension des autres est indifférente et leur amour importun. Il termine di omeostasi è ecclettico; ma il suo significato elusivo.

Pubblicato in L'Osservatore Romano, 21/12/2019.