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Quale verità sulla post-verità?

di Carlo Maria Polvani

Sull’Osservatore Romano del 6 gennaio scorso l’ambasciatore Antonio Zanardi Landi ha segnalato, con indiscutibile perspicacia, la tendenza all’abuso dei social media nella sfera politica, avvertendo che strumenti come Facebook, Twitter o Instagram rischiavano di trasformarsi in pericolosi fattori «di disaffezione e di paralisi del dibattito pubblico e del funzionamento delle democrazie». Senza mai nominarla direttamente, l’illustre diplomatico ha gettato, con squisita delicatezza, una luce sulla controversia intorno alla cosiddetta post-truth politics (“politica della post-verità”) che ha investito il mondo anglosassone, dopo i risultati a sorpresa (almeno stando ai sondaggi di intenzioni di voto della vigilia) del referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea e delle ultime elezioni presidenziali statunitensi.

Per alcuni suoi detrattori, la politica della post-verità è una teoria costruita da un gruppo di intellettuali progressisti per cercare di giustificare il loro fallimento nel rilevare il costituirsi di movimenti di fondo dell’opinione pubblica che hanno portato all’affermazione della Brexit e alla vittoria del presidente eletto Donald J. Trump. Per molti suoi sostenitori, essa rappresenta una nuova, efficace e preoccupante forma di comunicazione che ha cambiato le regole delle campagne elettorali. La controversia è stata così accesa — si pensi all’editoriale di William Davies sul «New York Times» del 25 giugno scorso: The Age of Post-Truth Politics — che la parola post-truth è stata scelta, un mese fa, «parola dell’anno» dagli Oxford Dictionaries e che non sono mancati quelli che, invocando esempi di società distopiche immaginarie come Brave New World di Aldous Huxley (1894-1963) o 1984 di George Orwell (1903-1950), hanno ricondotto la politica della post-verità a un tentativo di manipolazione dell’opinione pubblica su ampia scala. In realtà, non sono neppure molti quelli che osano paragonare la post-truth politics a spaventosi esempi reali di tale fenomeno, come la große Lüge (il popolo crede più facilmente a una grande bugia che a una piccola, sosteneva in Mein Kampf, Adolf Hitler) o la disinformatsia (il sistema di “disinformazione” perfezionato dal Direttorio Politico dello Stato, predecessore del kgb).

Infatti, il termine post-truth, nella sua accezione attuale, fu per primo usato dallo scrittore Stojan Steve Tešić (1942-1996), nel più antico settimanale politico-culturale americano «The Nation». In un articolo del 1992, il drammaturgo serbo-statunitense, ritenendo l’opinione pubblica americana ingiustificatamente insensibile allo scandalo dell’Irangate che aveva colpito l’amministrazione Reagan e superficialmente entusiasta dei successi dell’operazione Desert Storm decisa da quella di George Bush padre, scrisse: «Come popolo abbiamo deciso, liberamente, che vogliamo vivere in un mondo di post-verità». L’essenza della politica della post-verità parrebbe originare dal pensiero filosofico di Harry Gordon Frankfurt (1929-). Nell’ultimo decennio, questo esperto del razionalismo del XVII secolo, analizzò con cura il ruolo della propagazione delle bugie e della diffusione delle bufale nei dibattiti politici e sociali. La sua analisi fu poi arricchita dalle proposte dello scrittore Ralph Keyes (1945-), del giornalista Eric Altemann (1960-), dei politologi Colin Crouch (1944-) e Dominique Moïsi (1946-), nonché popolarizzata dal blogger David Roberts sulla rivista ecologista on-line, «Grist».

Oggi, per politica della post-verità si intende una cultura politica in cui le discussioni sono contraddistinte dalle emozioni a scapito dei fatti e delle idee, e in cui i punti centrali del dibattito sono stabiliti e veicolati grazie al martellamento incessante di elementi retorici nei nuovi mezzi di comunicazione. Si pensi a questo esempio teorico.

Nel corso di una campagna elettorale, un candidato propone una legge d’amnistia per i migranti illegali presenti sul territorio nazionale da almeno un quinquennio. Il suo oppositore politico, piuttosto che contrastare il progetto sulla stampa o nei forum politici invocando argomenti ideologici (per esempio, l’installarsi di una cultura del condono che favorirà l’immigrazione illegale) o fattuali (per esempio, il progetto di legge non prevede il pagamento di arretrati fiscali su proventi dal lavoro in nero), si concentra invece, per mezzo dei media sociali, nel diffondere messaggi ad alto effetto emotivo (e.g., migliaia di posti di lavoro saranno persi da cittadini onesti nel caso di regolarizzazione degli illegali). Quando il candidato a favore dell’amnistia controbatte che gli impieghi di quanti saranno regolarizzati non potrebbero comunque essere destinati a non-immigrati e persino, modifica il suo progetto di legge per includere un pagamento posticipato delle tasse sul reddito di quanti vorranno regolarizzarsi, il suo avversario, incurante di replicare alle nuove controproposte, continuerà a ribadire incessantemente nei social media il pericolo della perdita di migliaia di posti di lavoro. L’efficacia della politica della post-verità si verifica nell’emergere di una preoccupazione ossessiva nell’opinione pubblica sul presunto rischio della perdita dei posti di lavoro che rende impossibile o comunque vana qualsiasi discussione razionale sui benefici e sugli svantaggi del progetto di legge in esame.

Le caratteristiche della post-truth politics sono dunque sia di ordine tecnico — poiché dipendono da cambiamenti mediatici epocali, come il fatto che la metà dei giovani di oggi trova nei media sociali la fonte primaria, se non esclusiva, delle proprie informazioni — sia di natura sostanziale — non si tratta né di confutare una verità con un’altra verità, né di contrastarla con una non-verità, ma di porre le idee e i fatti in secondo piano rispetto a un punto focale emotivo il cui nesso causale con la realtà non è necessariamente stato dimostrato.

Possono questi segni distintivi della post-truth politics, da soli, giustificare che essa sia considerata una categoria inedita di formazione delle opinioni? Solo il tempo dirà se la politica della post-verità rappresenta un mutamento duraturo o un adattamento temporaneo di fronte all’emergere di nuovi mezzi di comunicazioni di massa. Per ora, le caratteristiche della post-truth politics sono interessanti per due ragioni. Innanzitutto, spiegherebbero perché lo spostamento di opinioni durante le campagne elettorali sia diventato così difficile da evidenziare nelle democrazie occidentali (almeno, usando i modelli statistici attualmente in vigore nella misurazione delle tendenze demoscopiche). Inoltre, illustrerebbero perché delle potenze straniere considererebbero possibile tentare di influenzare le elezioni di altre nazioni tramite l’uso dei mezzi di comunicazione (almeno, stando a quanto affermato dal direttore della National Intelligence, James Robert Clapper, in riferimento al presunto tentativo di condizionamento delle ultime elezioni presidenziali statunitensi da parte della Federazione russa). In un futuro prossimo, pertanto, è possibile che la disputa sulla politica della post-verità porti a un esame approfondito del ruolo dei media sociali nell’aiutare i cittadini a scegliere fra messaggi emotivamente comodi e verità razionalmente scomode. Ma il problema di fondo sembra essere molto più sostanziale e, per certi versi, alquanto più inquietante.

Nella La Repubblica (III, 414D), Platone presenta il mito della nobile menzogna (gennàion psèudos): una leggenda creata dalle élite che assicura l’armonia sociale, giacché sviluppa il senso civico nei cittadini e quello di responsabilità nei governanti. Senza prendere posizione sulla necessità e sulla moralità di tale progetto paideutico — entrambe brillantemente esaminate da uno dei filosofi più influenti del movimento neo-conservatore americano, Leo Strauss (1989-1973) — sembra legittimo chiedersi: la ragione ultima per cui i governanti cercano sempre mezzi, più o meno etici, di convincere i cittadini è forse quella descritta da Orwell nel citato 1984: «Che per l’uomo c’è una sola alternativa: di scegliere, cioè, tra la libertà e la felicità, e la maggior parte degli uomini tra le due preferisce la felicità»?

Pubblicato in L'Osservatore Romano, 11/01/2017