Vizi che diventano virtù nella comunicazione
Lectio Magistralis del Card. Gianfranco Ravasi
in occasione del conferimento della laurea h.c. in Scienze della Comunicazione
Libera Università Maria SS. Assunta, 22 novembre 2013
È con particolare intensità che esprimo la mia gratitudine per l’onore che mi viene riservato attraverso l’accoglienza tra i laureati della Libera Università Maria SS. Assunta, un’istituzione culturale di alta qualità con la quale, tra l’altro, il Pontificio Consiglio della Cultura, che presiedo, ha da anni stretti legami di collaborazione e di sintonia ideale. La mia riconoscenza va soprattutto al Rettore Magnifico Prof. Giuseppe Dalla Torre, a cui mi unisce non solo la stima e l’ammirazione per la sua opera ma anche un vincolo profondo di amicizia e di consonanza intellettuale. A lui associo nel ringraziamento tutto il corpo docente che ha sostenuto questa scelta che giunge ora al suo compimento attraverso l’atto ufficiale che mi unisce anche alla platea degli studenti.
Un nuovo fenotipo antropologico
Si tratta di un evento che mi è caro perché ho trascorso la maggior parte del mio ministero sacerdotale proprio nelle aule accademiche, prima come studente e poi per decenni come docente, a contatto coi giovani, con le loro attese, le loro prospettive e le loro espressioni culturali. Ed è stato proprio nella sede della LUMSA che ho voluto aprire nel febbraio scorso un evento significativo del nostro dicastero vaticano dedicato alle culture giovanili, a partire da quella componente capitale che è la loro musica.
C’è, poi, una ragione molto specifica e per me particolarmente significativa nell’atto accademico che si sta ora celebrando. La laurea ad honorem che mi viene assegnata riguarda una dimensione fondamentale della mia biografia personale, ossia la comunicazione. Non per nulla a lungo, fin dal 1996, l’unica voce che mi era dedicata nelle popolari “Garzantine” – prima che approdassi a quella generica del dizionario “Universale” – era presente proprio nell’enciclopedia della Televisione curata da Aldo Grasso, in ragione del programma televisivo “Le frontiere dello Spirito” che curo ormai da oltre 25 anni.
Il tema della comunicazione è, infatti, decisivo non solo nell’odierna società, ove ha creato un nuovo fenotipo antropologico, ma lo è anche nello stesso orizzonte ecclesiale. L’immagine della “rete”, comunemente usata, è emblematica non solo per definire un sistema, ma anche una sorta di reticolo che avvolge il nostro globo. Alla voce prorompente del predicatore, dell’oratore, del propagandista, del politico che in passato riuscivano al massimo a inondare coi loro asserti i templi o le piazze urbane, si sono sostituite le onde radio-televisive, i digitali terrestri, le arterie informatiche. Il celebre appello di Cristo: «Quello che io vi dico nelle tenebre ditelo nella luce, e quello che ascoltate all’orecchio voi annunciatelo dalle terrazze» (Matteo 10,27) – “terrazze” che in pratica erano i tetti delle case di allora – si deve ormai trascrivere sostituendovi le antenne e le parabole mediatiche collocate sui palazzi delle metropoli, oppure i ripetitori e i cavi di trasmissione.
Come si diceva, l’uso sistematico e sistemico della comunicazione virtuale sta inesorabilmente creando un nuovo profilo antropologico, ossia una persona che adotta un modello “freddo” di relazioni interpersonali: il ragazzo che trascorre ore davanti allo schermo frigido del suo computer, “chattando” con decine di interlocutori ignoti, plasma il suo dialogo in una forma alternativa rispetto a quella tradizionale che presupponeva il contatto, lo sguardo, l’allusione implicita alle tonalità di voce, l’ammiccamento visivo, il colore, il calore, l’odore, la pelle, il realismo di un incontro. La persona è collocata in una dimensione non più diretta e “fisica” ma “virtuale” e smaterializzata o, se si vuole, “iperreale”, per ricorrere a un’espressione del sociologo francese Jean Baudrillard (morto nel 2007), da lui adottata nei suoi studi sulla società dei consumi e della nuova comunicazione: significativo è il suo saggio, provocatorio già nel titolo, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, pubblicato nel 1995.
Anzi, si compie un fenomeno ancor più significativo. Il fruitore sistematico di questo nuovo modello di comunicazione non riesce più a distinguere tra una vita on line e l’esistenza off-line che sta attorno a lui e in cui è collocato. Egli, infatti, entra ed esce in modo continuo dalla rete senza soluzioni di continuità, ritenendo “naturale” l’ambiente virtuale, per certi versi ai suoi occhi più reale di quello esterno. La “seduzione” del mezzo – per usare ancora un termine caro a Baudrillard (Della seduzione è il titolo di un suo noto saggio del 1979) – è cosi forte da avvolgere integralmente il pensare e l’agire. È per questo che riteniamo opportuno precisare, sia pure in modo sommario, le coordinate della nuova fenomenologia umana e sociale che l’evoluzione mediatica di questi ultimi anni ha creato.
A partire dall’invenzione del telegrafo (1844), passando poi al telefono (1876), alla fotografia (1888), alla radio e al cinema (1895), si è infatti approdati alla televisione (1953) e, come ha sottolineato l’ormai celebre teorico canadese della comunicazione contemporanea, Herbert Marshall McLuhan (1911-1980), tutti questi strumenti si sono trasformati in “protesi” dei nostri organi di conoscenza, permettendo ad essi di andare oltre le loro capacità naturali. Diventava, così, evidente la loro forza di impatto che lo studioso aveva formalizzato nel celebre asserto, divenuto quasi uno stereotipo: «il mezzo è il messaggio». Come ironizzava nella sua raccolta di saggi La sposa meccanica (1951), «la moderna Cappuccetto Rosso, allevata a suon di spot pubblicitari, non ha nulla in contrario a lasciarsi mangiare dal lupo». Ora, però, con la cultura elettronica si è compiuta un’ulteriore fase evolutiva, ben rappresentata da termini come “villaggio globale” (locuzione per altro già escogitata da McLuhan) o “cybercultura”.
Dalle “protesi” si è passati a una sorta di ambiente globale e collettivo, un’atmosfera che non si può non respirare, neanche da parte di chi si illude snobisticamente di sottrarvisi. Sono quelli che l’antropologo francese Marc Augé ha denominato come i “Non-luoghi” nell’omonimo saggio del 1992. Essi avvolgono e coinvolgono l’essere intero della persona e il suo stesso esistere, demoliscono il nesso dialettico tradizionale tra realtà e finzione, cancellandone le frontiere e creando un mondo artificiale con persone reali e viceversa. In sintesi, se McLuhan era convinto che gli artefatti cognitivi dei new media fossero una “estensione di noi stessi” (The Extension of Man era il sottotitolo del suo saggio Understanding Media del 1964), ora si avverte il trapasso a una nuova “condizione umana” generale, analoga a quella che si produsse quando Galileo inventò il telescopio.
A prima vista quella scoperta sembrava una “estensione” della vista; in realtà, essa si era rivelata qualcosa di più potente; aveva, cioè, prodotto una rivoluzione epistemologica (conoscitiva e metodologica) e antropologica globale, come ha attestato Hannah Arendt nel notissimo saggio intitolato appunto Vita Activa. La condizione umana (1958). Questo evento mutò radicalmente gli stessi concetti di verità e di realtà, come scriveva quella pensatrice tedesca in un altro suo scritto, Che cos’è la filosofia dell’esistenza? (1946): «L’uomo si era fino allora ingannato nel confidare che la realtà e la verità si rivelassero ai suoi sensi e alla sua ragione se solo egli rimaneva fedele a ciò che vedeva con gli occhi del corpo e della mente». Cambiando il mezzo, cambiava invece anche l’oggetto da esaminare. È ciò che si è verificato già con la nascita e la crescita dell’era televisiva, ma che si è perfezionato soprattutto con l’ingresso prepotente dell’informatica che ha nei vari strumenti digitali il suo simbolo regale e che ha generato una nuova grammatica del conoscere, del comunicare e dello stesso vivere.
Anche se enfatica, è per molti aspetti condivisibile l’affermazione di John Perry Barlow della “Electronic Frontier Foundation”: «Siamo di fronte alla più significativa trasformazione tecnologica dopo la scoperta del fuoco». L’Ulisse elettronico non si stanca di navigare in un oceano che sembra essere sempre più spazioso, coltivando la speranza o l’illusione che esso sia infinito. Potremmo dire che idolatricamente l’uomo mediatico contemporaneo abbia sostituito con la rete il concetto della divinità nella quale “se descubren nuevos mares cuanto más se navega”, ossia si scoprono nuovi mari, quanto più si naviga, come scriveva il mistico spagnolo del ‘500, Fray Luis de León. È, comunque, difficile descrivere in modo compiuto la complessa situazione di questa comunicazione nella quale, tuttavia, ormai «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (cf. Atti 17,28), per continuare nella linea dello stravolgimento della visione teologica.
Infatti, il “creato” in cui siamo ora immersi ha un nuovo profilo e non solo perché sono mutate le nostre dinamiche percettive attraverso le già evocate “protesi” sensoriali, ma – come si diceva – perché è sbocciato un nuovo orizzonte in cui siamo innestati. Non per nulla, a partire dal 2001, ad opera dello studioso di tecnologie pedagogiche e sociali Mark Prensky, si è coniata la fortunata formula dei digital natives; è la generazione contemporanea dei bambini, ragazzi o giovani nati già in questo nuovo mondo, diversi da noi che siamo solo “migranti digitali” e, quindi, come tutti gli immigrati, abbiamo dovuto plasmare noi stessi adattandoci alla nuova terra, conservando però sempre tracce del nostro accento originario, ossia del nostro linguaggio di lettori, ascoltatori, comunicatori tradizionali, provenienti dalla famosa “Galassia Gutenberg”, quella del libro e della carta stampata, per usare un altro fortunato simbolo di un’opera di McLuhan (1962).
Significativo è il ritratto che Prensky ha offerto di questi “nativi digitali” in un suo articolo apparso sulla rivista On the Horizon del 2001: «I nativi digitali sono abituati a ricevere informazioni in maniera estremamente veloce. Loro preferiscono attivare processi paralleli e multi-task. Preferiscono il codice iconico piuttosto che quello scritto. Preferiscono un accesso alle informazioni in maniera casuale piuttosto che attraverso una ricerca strutturata. Danno il meglio di sé quando navigano su Internet. I nativi digitali vivono di gratificazione immediata e premi frequenti. Essi preferiscono l’aspetto ludico rispetto alla seriosità di un lavoro».
L’orizzonte critico della comunicazione contemporanea
Nel 1964, nel suo ormai celebre testo Apocalittici ed integrati, Umberto Eco tracciava una linea di demarcazione tra due atteggiamenti radicali nei confronti dei new media. Da un lato, segnalava l’entusiasmo di coloro che in essi intuivano una svolta decisiva per l’umanità e, quindi, ne adottavano i codici e vi si integravano più o meno pienamente. In un certo senso McLuhan e i suoi eredi come Walter J. Ong e Derrick de Kerckhove si muovevano in questa linea, sia pure con riflessioni più articolate e complesse. D’altro lato, si ergevano invece i detrattori che mettevano in guardia contro le degenerazioni, talvolta con toni “apocalittici”. Così, ad esempio, il popolare saggio L’uomo a una dimensione (1964) di Herbert Marcuse non esitava a lanciare questa denuncia implacabile: «Nei paesi supersviluppati, una parte sempre più larga della popolazione diventa un immenso uditorio di prigionieri, catturati non da un regime totalitario ma dalle libertà dei concittadini i cui media di divertimento e di elevazione costringono gli altri a condividere ciò che essi sentono, vedono e odorano. Come può una società che è incapace di proteggere la sfera privata dell’individuo persino tra i quattro muri di casa asserire legittimamente di rispettare l’individuo e di essere una società libera?».
È curioso osservare che, nell’anno successivo (1965) alla pubblicazione del volume di Eco, Elémire Zolla, nella sua Eclissi dell’intellettuale, se la prendeva nella sua accusa persino col cinema perché, a suo avviso, «deruba il sogno ad occhi aperti della sua aura evanescente e confusa, disperdendo così ogni nebulosità per rivelare molto chiaramente dei fantasmi simili ad esseri viventi o anche di maggiore statura; non solo zittisce la voce della realtà dicendo: “Posso fare a meno di te”, ma anche la società diventa gradualmente incapace di smascherare il sonnambulo». Nei confronti della televisione e del suo impero l’accusa più stentorea è stata sollevata da uno dei più importanti filosofi del Novecento, Karl Popper (morto nel 1994).
Nell’ultima fase della sua vita, infatti, il pensatore austriaco ha ingaggiato una personale battaglia contro lo strapotere della comunicazione televisiva. Potremmo sintetizzare la sua critica molto articolata in questi tre asserti. La televisione innanzitutto addormenta lo spirito critico, creando degli autentici automi o replicanti intellettuali. In secondo luogo trasforma la democrazia in telecrazia di stampo totalitario, un sistema che è impresso nelle menti dei telespettatori in modo surrettizio e subdolo. Infine la televisione deforma il buon gusto, perverte il senso estetico, semplifica e banalizza la realtà e il pensiero. Accuse certamente pesanti e fin eccessive, per certi versi un po’ scontate e stereotipate, ma tutt’altro che infondate.
La superficialità, l’apparire esteriore, la semplificazione della televisione hanno progressivamente infettato anche il resto della comunicazione, a partire dalla carta stampata, sempre più incline a inseguire ritmi, stili, mode e dati televisivi. Anzi, quelle caratteristiche si sono irradiate anche nella società e nella cultura generale: ogni argomento ormai dev’essere sempre affrontato in modo “essenziale”, ma questo aggettivo non indica il mirare alla sostanza dei problemi, bensì alla loro semplificazione e banalizzazione. Distinguere e argomentare in modo puntuale e sfumato rispetto al facile e sbrigativo ritmo binario dominante del “bianco-nero”, “vero-falso”, “destra-sinistra” e così via è ritenuto dannoso per l’indice d’ascolto di cervelli ormai incapaci di andare oltre il bagliore fatuo dello slogan o della battuta. Le conseguenze sono immaginabili anche per la stessa formazione morale e spirituale dell’uomo, se è vero quello che affermava il grande Pascal: «Impegnarsi a pensare bene: ecco il principio della morale!». Ammiccando al prologo giovanneo, il poeta Ezra Pound esclamava: “In principio c’era la Parola. E la Parola è stata tradita”.
Per certi versi ancor più incombente (pur essendo ancora agli esordi delle sue potenzialità) è l’impero informatico, che abbiamo sopra delineato nelle sue coordinate fondamentali. Su di esso esiste già un’immensa letteratura che ne vaglia le strutture, ne delinea i percorsi, ne giudica gli esiti. Anche in questo caso ci accontentiamo di raccogliere una serie di osservazioni critiche, pur nel primario riconoscimento della straordinaria capacità di “democratizzazione” dell’informazione, generata dal moltiplicarsi dei computer e dalla conseguente diffusione “popolare” delle conoscenze. Alcune riserve non fanno che ricalcare quelle già espresse per gli effetti indotti dalla televisione. Eccone una serie, anche in questo caso elencata sinteticamente in tre asserti.
Primo. La moltiplicazione sconfinata dei dati offerti induce a un relativismo agnostico, a una sorta di anarchia intellettuale e morale, a una flessione dello spirito critico e della capacità di vaglio selettivo. Entrano, così, in crisi le grandi agenzie di comunicazione del passato come la Chiesa, la Scuola e lo Stato. Risultano sconvolte le gerarchie dei valori, si disperdono le costellazioni delle verità ridotte a un giuoco di opinioni variabili nell’immenso paniere delle informazioni. Si attua in modo inatteso quel principio che il filosofo Thomas Hobbes aveva formulato nel suo celebre Leviathan (1651): «Auctoritas non veritas facit legem», è l’autorità potente e dominante che determina le idee, il pensiero, le scelte, il comportamento e non la verità in sé, oggettiva. La nuova autorità è appunto quella dell’opinione pubblica prevalente, che ottiene più spazio e ha più efficacia all’interno di quella massa enorme di dati offerti dalla comunicazione informatica.
Secondo. Sotto l’apparente “democratizzazione” della comunicazione, sotto la “deregulation” imposta dalla globalizzazione informatica, che sembrerebbe essere principio di pluralismo, sotto la stessa anarchia contenutistica precedentemente segnalata, si cela in realtà un’operazione di omologazione e di controllo. Non per nulla le gestioni delle reti sono sempre più affidate alle mani di magnati o di “mega-corporations” che riescono sottilmente e sapientemente a orientare, a sagomare, a plasmare a proprio uso (e ad uso del loro mercato e dei loro interessi) contenuti e dati creando, quindi, nuovi modelli di comportamento e di pensiero. Si assiste, così, a quella che è stata chiamata un po’ rudemente “una lobotomia sociale” che asporta alcuni valori consolidati per sostituirne altri spesso artificiosi e alternativi. Curiosamente già lo storico francese Alexis de Tocqueville (1805-1859) nella sua opera La democrazia in America aveva previsto per il futuro della società americana un sistema nel quale «il cittadino esce un momento dalla dipendenza per eleggere il padrone e subito vi rientra». Profilo che, per certi versi, s’adatta all’attuale società informatica.
Terzo. Come si diceva, si assiste all’accelerazione e alla moltiplicazione dei contatti ma anche alla loro riduzione alla “virtualità”. Si piomba, così, in una comunicazione “fredda” e solitaria che esplode in forme di esasperazione e di perversione. Si ha, da un lato, l’intimità svenduta della “chat line” o, per stare nell’ambito televisivo, quella di programmi del genere Il grande fratello; si ha la violazione della coscienza soggettiva, dell’interiorità, della sfera personale. D’altro lato, si ottiene come risultato una più forte solitudine, un’incomprensione di fondo, una serie di equivoci, una fragilità nella propria identità, una perdita di dignità. E’ stato osservato dal citato Barlow che non appena i computer si sono moltiplicati e le antenne paraboliche sono fiorite sui tetti delle case, la gente si è chiusa nelle case e ha abbassato le serrande. Paradossalmente, l’effetto dello spostarsi verso la realtà virtuale e verso mondi mediatici è stato quello della separazione gli uni dagli altri e della morte del dialogo vivo e diretto nel villaggio.
L’orizzonte positivo della comunicazione contemporanea
Di fronte a questo orizzonte così problematico, forte può essere la tentazione dello scoraggiamento e dell’atteggiamento rassegnato o dimissionario, nella convinzione dell’inarrestabilità di un simile processo destinato a creare un nuovo standard umano. Non è raro il caso di chi si rinchiude nel suo piccolo mondo antico, accontentandosi di seguire le regole del passato, deprecando le degenerazioni dell’era presente. A livello ecclesiale non mancano fenomeni di rigetto e di ricorso ai tradizionali canali di comunicazione, collaudati per una società agricola o paleoindustriale o proto-urbana. Tuttavia, il filosofo e sociologo francese Edgar Morin – pur osservando che i nuovi mezzi sorti per distinguere la realtà dalla manipolazione e la verità dalla menzogna, come la fotografia, il cinema e la televisione, sono stati usati in molti casi proprio per favorire l’illusione, la manipolazione e la menzogna – ha dimostrato con molti altri studiosi di questi fenomeni che la nuova comunicazione possa, in ultima analisi, generare una realtà più ricca e complessa e persino più feconda anche umanamente.
Il realismo della conoscenza e della critica non giustifica, allora, il pessimismo dell’impegno. E questo vale maggiormente per il credente ed è ciò che è ininterrottamente testimoniato dalla figura di Papa Francesco e dalla sua originale e incisiva comunicazione. Le sfide sono forti, rischiose e pericolose ma proprio per questo esigono fiducia e coraggio, nella consapevolezza che il cuore della fede è proprio nella Rivelazione, ossia nella comunicazione divina che spezza il silenzio ineffabile della trascendenza e si apre all’umanità. È un dialogo che – nel cristianesimo – vede in azione il Figlio stesso di Dio, dopo la voce dei profeti e dei sapienti di Israele: «Dio nessuno mai l’ha visto: proprio il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Giovanni 1,18). Una comunicazione che prosegue oralmente attraverso gli apostoli e che diventa scritta fin dai primi secoli.
È significativo notare che è proprio il magistero della Chiesa nella sua espressione più alta ad avere costantemente invitato la comunità cristiana a non adottare un isolazionismo protettivo ma a entrare in questo che è «il primo areopago moderno», come aveva fatto Paolo ad Atene (Atti 17, 22-32). È noto che questa frase appartiene all’enciclica Redemptoris missio del 1990. In essa Giovanni Paolo II riconosceva che ormai è in corso una “nuova cultura”: essa nasce, «prima ancora che dai contenuti, dal fatto stesso che esistono nuovi modi di comunicare con nuovi messaggi, nuove tecniche e nuovi atteggiamenti psicologici». Il Papa, anzi, era convinto che questa cultura «sta unificando l’umanità rendendola - come si suol dire – “un villaggio globale”. I mezzi di comunicazione sociale hanno raggiunto una tale importanza da essere per molti il principale strumento informativo e formativo, di guida e di ispirazione per i comportamenti individuali, familiari, sociali. Le nuove generazioni soprattutto crescono in modo condizionato da essi… È, allora, necessario integrare il messaggio cristiano in questa “nuova cultura” creata dalla comunicazione moderna» (n. 37).
Già Paolo VI nella esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1975, segnalando le esitazioni che avevano causato una «rottura tra Vangelo e cultura» (n. 20), un iato dai risvolti molteplici non solo comunicativi ma anche artistici, musicali, sociali e culturali in senso generale, non esitava ad ammonire che «la Chiesa si sentirebbe colpevole di fronte al Signore se non adoperasse questi potenti mezzi» (n. 45). È sorprendente notare come il linguaggio tecnico dei computer si sia curiosamente avvicinato a quello teologico mutuandone alcuni termini come, ad esempio, “icona”, save, convert, justify, vocaboli che appartengono alla stessa Sacra Scrittura, apparentemente così remota cronologicamente e ideologicamente.
È in questa linea che si è giunti al punto di parlare persino – in analogia alla “cybercultura” (Pierre Lévy) – di una “cyberteologia” della quale si hanno già vere e proprie analisi sistematiche, come quella proposta nel 2006 dall’americana Susan George (Religion and Technology in the 21st Century) il cui sottotitolo è emblematico, Faith in the e-World. La fede si insedia, quindi, nel mondo cyber (prefisso disceso dal termine “cibernetica”, la cui matrice greca evoca un “governo” della realtà, dell’azione e del pensiero) con una serie di contenuti significativi, anche se non sempre impeccabili. Cyberteologia è, però, anche la riflessione teologica e pastorale sulla stessa comunicazione nei tempi di internet e sulle modalità con cui innestarvi l’annunzio evangelico. Alla base, quindi, c’è la convinzione che la rete sia un “dominio” dotato di grandi potenzialità spirituali: è in questa luce che il gesuita padre Antonio Spadaro, attuale direttore della Civiltà Cattolica, ha creato un sito specifico intitolato appunto www.cyberteologia.it., e non sono pochi gli ecclesiastici che esercitano sistematicamente in rete una particolare (ma non esclusiva) forma del loro ministero.
Ma se risaliamo allo stesso Concilio Vaticano II, ritroviamo già l’appello a riconoscere che gli strumenti della comunicazione sociale «contribuiscono mirabilmente a sollevare e ad arricchire lo spirito e a diffondere e a consolidare il Regno di Dio» (Inter mirifica n. 2). San Paolo stesso aveva attuato il primo grande progetto di inculturazione del cristianesimo, ricorrendo a un linguaggio e a un’attività missionaria pronta a usufruire delle risorse offerte dalla cultura greco-romana, dalle sue tecniche oratorie, dalle vie di comunicazione dell’impero, dagli ambiti della polis e dalla forza della parresía, la libera diffusione del pensiero. Anche se non è legge costante, il mezzo è di sua natura neutro e viene specificato dal soggetto umano che lo adotta e usa, dalle sue intenzioni morali e dalle sue finalità terminali.
Il vizio e la virtù sono parenti?
Abbiamo finora presentato a dittico antitetico sia i rischi e le degenerazioni che la comunicazione contemporanea trascina con sé, sia la fecondità, l’originalità e la necessità che essa comporta per l’esperienza religiosa. Lasciando tra parentesi le proposte metodologiche e contenutistiche (se vogliamo ricorrere ai canoni della retorica classica, il quomodo e il quid della comunicazione), riproponiamo in modo concreto gli orizzonti appena delineati col loro duplice registro attraverso una serie di esemplificazioni emblematiche ed essenziali che confermino ulteriormente il possibile trapasso – nel campo della comunicazione – dal negativo al positivo, dalla realtà critica alla creatività.
«Il vizio e la virtù sono parenti, come il carbone e i diamanti», perché entrambi hanno per base il carbonio. Quando lo scrittore austriaco Karl Kraus nel 1909 formulava questa battuta nei suoi Detti e contraddetti – battuta analoga a quella dello storico francese ottocentesco Hippolyte-Adolphe Taine che, invece, ricorreva al paragone col vetriolo e lo zucchero che hanno ambedue la base comune del glucosio – affermava un’indiscutibile verità. Tanto per fare un esempio, dallo sdegno virtuoso contro l’ingiustizia si può scivolare all’ira rabbiosa e sfrenata che è, invece, un vizio capitale. Registreremo, allora, alcuni vizi dell’attuale comunicazione che, però, possono tramutarsi in virtù. I vizi, o almeno le incomprensioni, ma anche le disattenzioni, le approssimazioni e i limiti comunicativi reciproci che hanno accompagnato molte tappe recenti della vita ecclesiale possono trasformarsi per la stessa Chiesa nella riscoperta di alcune virtù nella comunicazione della fede. Sceglieremo solo degli esempi significativi ordinandoli in una specie di tetragramma di regole minime che da prassi “viziose” possono rivelarsi principi “virtuosi”.
1. L’estenuazione della subordinata. Con questa locuzione un po’ sofisticata è ben definita una modalità sintattica e contenutistica della comunicazione contemporanea. Essa si esprime mediante l’abolizione del discorso articolato in subordinate, la semplificazione dell’argomentazione motivata, l’abbandono del sillogismo stringente, l’allergia alla sistematicità del ragionamento. Il pensiero si raggrinzisce in frasi semplici e il discorso si basa solo su coordinate spesso indipendenti tra loro; l’essenzialità tende a diventare stereotipo; la riduzione argomentativa corre il rischio di precipitare nel banale; il minimalismo da Twitter (soltanto 140 caratteri!) si incrocia con la superficialità.
L’approfondimento viene giudicato noioso e inadatto all’ascolto; il servizio del telegiornale deve comprimersi in un paio di minuti al massimo al cui interno è ospitata anche un’intervista. Il contesto viene ridotto al minimo e talora ignorato così che alcune affermazioni acquistano una paradossalità che nasce solo dalla loro nudità, isolate come sono rispetto al corpo del discorso in cui erano inserite. Infatti, le dichiarazioni sviluppate nell’ambito di un ragionamento recano con sé un messaggio articolato; esso, però, può essere stravolto qualora venga privato del suo contesto (le frasi di Manuele Paleologo citate da Benedetto XVI a Ratisbona espunte dal cursus argomentativo in cui erano innestate, divenivano altra cosa e potevano risultare sconcertanti).
Fin qui il vizio che alligna nell’attuale comunicazione e che ha il suo emblema nella grammatica del “messaggino” al cellulare. Detto questo, bisogna però affermare che il limite insito in un simile atteggiamento può trasformarsi in virtù preziosa soprattutto per l’annunzio religioso. Si tratta della conquista dell’essenzialità, della capacità di puntare senza fronzoli alla sostanza delle questioni; è l’abbandono di un certo linguaggio ecclesiale barocco, debitore di una retorica e di un’autoreferenzialità ormai ignote alla scattante e fin nervosa società contemporanea. Certo, la riflessione teologica e i documenti ecclesiali magisteriali devono distendersi lungo i percorsi ampi dell’argomentazione, inerpicarsi sui sentieri d’altura dell’astrazione sistematica e scendere nelle valli degli approfondimenti e delle applicazioni. Tuttavia, la semplicità e la già citata chiarezza devono essere un traguardo da tener sempre fisso quando si esce nell’aperto dell’areopago, fuori dalle sale ovattate e silenziose dell’accademia o dal vasto perimetro delle dichiarazioni argomentate.
2. La logica dell’attualità. La nostra società è scandita da un ritmo frenetico. Non importa che, in realtà, spesso il suo movimento si ripeta, ritornando sempre sulle stesse questioni o esperienze, in una sorta di “exode sur place”, un esodo che in realtà si svolge sempre sullo stesso terreno, come diceva lo studioso francese Rémi Lack: ci sembra di essere sempre in movimento, aggrappati a continui flussi spaziali e a rulli ininterrotti di notizie che corrono sugli schermi, mentre in ultima analisi si è come l’Ulisse di Joyce che circola costantemente nello stesso labirinto urbano, incontrando una folla di persone e di eventi, ma in verità rimanendo chiuso in se stesso e nel medesimo spazio, avvolto nel ritmo incessante della ripetizione. Questa ricerca spasmodica dell’ultima novità, anche se essa è in realtà scontata e meno appariscente di quanto appaia all’esterno, oppure la proposta di news apparentemente più fresche, alla fine si trasforma in un vizio, quello dell’impossibilità sia del giudizio sui fatti, sia della riflessione seria e severa per trarne lezioni di comportamento. In questa luce aveva ragione Montale quando, evocando il celebre asserto latino dell’historia magistra vitae, affermava in Satura che «la storia è magistra di nulla per quanto ci riguarda».
Questo vizio, però, che impedisce di individuare la visione d’insieme della realtà e la permanenza di alcune costanti e valori, può essere una virtù che si sposa col mistero centrale del cristianesimo, l’Incarnazione. La fede cristiana non è una sequenza di tesi astratte, ma la proclamazione di un evento che comprende anche un aspetto fattuale, verificabile storiograficamente. Aveva ragione il già citato filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein quando nei suoi “quaderni” annotava: «Il cristianesimo non è una dottrina, né una teoria dell’anima umana. È la descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo». L’attenzione all’attualità è, perciò, decisiva perché è nell’immediato quotidiano che si deve incarnare la verità evangelica. La cosiddetta “attualizzazione” della Parola di Dio – che ha avuto una costante e straordinaria attestazione nella storia dell’arte di ogni secolo – è una componente necessaria dell’annunzio cristiano. Le scelte anche simboliche di Papa Francesco confermano la fecondità evangelizzatrice della connessione con la storia, nello spirito dell’Incarnazione.
3. L’impero dell’approssimazione. È vero: si è spesso detto che divulgare è sempre approssimare, e questa necessità diventa non di rado una legge dominante nell’informazione. Ciò vale non solo per la religione, ma anche per la scienza o l’economia o la medicina quando approdano nelle rubriche redazionali. Lo spirito mordace del già citato Karl Kraus scherzava (ma forse non troppo…) quando affermava che il rapporto che i giornalisti hanno con la verità è lo stesso di quello che le cartomanti hanno con la metafisica. Il vizio dell’approssimazione spesso impera nella comunicazione religiosa e ha genesi diverse. Può nascere da una vera e propria impreparazione, oppure da una disinformazione ricevuta e trasmessa, o ancora da una certa mitologia nei confronti della Chiesa e delle sue scelte o vicende. La scrupolosa verifica dei dati, la cura del dettaglio, il vaglio delle fonti, anche a causa della fretta precedentemente ricordata, diventano esercizi poco praticati in tutti i campi.
Questo limite pesante può generare, però, per contrasto una virtù nell’istituzione ecclesiale, spingendola a favorire la trasparenza, a non rifugiarsi nella pura e semplice critica, a offrire una documentazione fruibile, ad essere più simpatetici col mondo dell’informazione, adottando un dialogo reale sostanziato di contenuti chiari, a non trincerarsi dietro il formalismo del comunicato ufficiale che talora è come l’oracolo di Delfi, dice e non dice, ma solo ammicca, favorendo così l’imprecisione dell’interprete. Già Aristotele riconosceva nella sua Retorica che «la semplicità sincera rende gli oratori incolti più efficaci dei colti nel rivolgersi a un pubblico popolare». Tenendo conto del fatto che nel mondo della comunicazione, soprattutto in quella “internettiana” così sterminata, s’affollano legioni di incolti, è meglio aprire loro con chiarezza ed essenzialità il bagaglio dei dati reali perché i fruitori possano più efficacemente recepirli ed eventualmente trasferirli in rete, senza essere tentati di elaborare sintesi o ricostruzioni o interpretazioni in proprio.
4. La forza del “piccante”. Un delizioso detto rabbinico afferma che «val più un grano di pepe rispetto a un cesto di cocomeri». È indubbio che l’eccezione provoca più interesse della norma secondo la celebre battuta per la quale a far notizia non è un cane che morde un uomo ma il contrario. Nel curioso e sarcastico Left Handed Dictionary americano si legge questa ironica definizione del giornalista: «Colui che sa distinguere tra grano e pula e pubblica solo la pula». Si crea, in tal modo, la corsa allo scandalismo, ai retroscena, al negativo. Nel caso della Chiesa è facile da parte dei media indulgere alla ricerca dell’abuso, della mancanza, della contraddizione, spesso “massimizzandone” gli echi e persino la stessa realtà. Ad esempio, non di rado la Curia romana è stata rappresentata esclusivamente come un covo ove si perpetrano maneggi oscuri e si consumano scontri di potere alla Dan Brown. Questa ricerca spasmodica del “piccante”, specialmente in ambito sessuale, è evidentemente un vizio che ha registrato punte acute nella recente comunicazione, particolarmente in quella giornalistica, ma dilaga anche sulla rete, favorita dalla semplificazione e dalla riduttività del modulo informativo tipico dei “lanci” di notizia.
Questo atteggiamento negativo ha, però, il suo risvolto positivo che dovrebbe essere assunto anche dalle istituzioni ecclesiali, senza che esse si lascino tentare da un’esclusiva deprecazione del vizio appena denunciato. Da un lato, questo fenomeno può diventare una lezione per una limpida e corretta informazione da offrire ai media da parte della Chiesa, senza ricorrere subito al negazionismo assoluto o all’autodifesa apologetica che risultano autolesionisti e controproducenti. La capacità di presentare l’eccezione o il caso grave nella sua autentica realtà ridimensiona la generalizzazione a cui indulge l’analisi giornalistica, blocca almeno parzialmente le ricostruzioni fittizie e le deduzioni allargate. D’altro lato, la regola del “piccante” invita il mondo ecclesiale a non cedere alla verbosità, alla genericità, alla vaghezza, considerata all’esterno come una cortina fumogena. Moltiplicando le argomentazioni e le scusanti, ci si mostra, alla fine, reticenti oppure incapaci di comunicare la realtà dei fatti, lasciando aperti varchi al sospetto della vaghezza e dell’ambiguità.
La comunicazione nel silenzio
La critica a un’informazione spesso approssimativa, superficiale, prevenuta e fin ostile per ragioni di principio, non deve, quindi, esimere la comunità ecclesiale da una ferma autocritica nei confronti dei propri limiti. Le evidenti incomprensioni che allignano nella società non devono produrre un rassegnato vittimismo e neppure un’altezzosa noncuranza del fenomeno. Anche se l’odierna esasperazione della comunicazione, la sua accelerazione ed estensione costituiscono una novità, il problema in questione è nella sua sostanza un fenomeno costante che risale alle origini stesse della cristianità. Quella che appare ai nostri occhi (e anche per molti versi lo era) come la primavera della Chiesa era tutt’altro che idilliaca, era sottoposta a gelate, a tempeste, a devastazioni. E questo si registrava non solo a livello di vita ecclesiale: emblematiche sono le divisioni accese che frantumano la Chiesa di Corinto, fieramente denunciate da san Paolo (1 Corinzi 1, 10-16).
La crisi si manifestava anche a livello di comunicazione, e l’Apostolo lo conferma a più riprese puntando l’indice contro una serie di deviazioni dottrinali e morali che si ramificavano attraverso l’oralità che era il medium allora dominante, «turbando e sovvertendo» (Galati 1,7), «provocando divisioni e ostacoli contro l’insegnamento appreso» (Romani 16,17), «incantando gli stolti» cristiani della Galazia (Galati 3,1). Il fascino della stravaganza e dell’eccesso attirava già allora, tant’è vero che san Paolo polemizza con alcune comunità cristiane nelle quali «ci si circonda di maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole» (2 Timoteo 4,3-4). Anzi, la forza “performativa”, cioè efficacemente incisiva, della comunicazione – soprattutto nei confronti delle persone più indifese – è rappresentata senza reticenze nel suo versante negativo all’interno della stessa lettera indirizzata da san Paolo al collaboratore Timoteo: «Vi sono alcuni che entrano nelle case e circuiscono certe donnette cariche di peccati e in balìa di passioni di ogni genere, sempre pronte a imparare, ma che non riescono mai a giungere alla conoscenza della verità» (3,6-7).
In quel contesto di comunicazione viziata, già allora non si esitava ad adottare la pura e semplice falsificazione a livello di massa: nella comunità cristiana di Tessalonica circolavano persino – dice l’Apostolo – «alcune lettere fatte passare come nostre», tali da «confondere la mente e allarmare» (2 Tessalonicesi 2,2), tant’è vero che Paolo era costretto ad apporre ai suoi scritti – dettati, com’era prassi, a uno scriba – una specie di autenticazione: «Il saluto è di mia mano, di Paolo. Questo è il segno autografo di ogni mia lettera; io scrivo così» (2 Tessalonicesi 3,17); «vedete con che grossi caratteri vi scrivo di mia mano» (Galati 6,11). L’“adulterazione” del messaggio secondo forme ingannevoli era una vera e propria piaga che attecchiva in varie Chiese delle origini (2 Corinzi 4,2). Il monito è, perciò, costante: «Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia e con vuoti raggiri… Nessuno vi inganni con parole vuote» (Colossesi 2,8; Efesini 5,6). La comunicazione malata, le incomprensioni e le degenerazioni sono, quindi, un dato permanente e forse scontato non solo nel confronto con l’esterno, ma anche all’interno stesso della Chiesa.
A questo punto vorremmo apporre al nostro itinerario molto variegato e forse anche un po’ disperso e dispersivo una nota conclusiva. Essa ha il sapore di un “controcorrente”. Dopo aver trattato tanto di parole, di informazione, di comunicazione, faremmo entrare in scena l’antipodo, cioè il silenzio. In uno dei suoi Shorts il poeta inglese Wystan H. Auden, morto nel 1973, confessava: «Bisognosi anzitutto / di silenzio e di calore, / produciamo / freddo e chiasso brutali». Il filosofo Friedrich W. Nietzsche osservava che «è difficile vivere con gli uomini perché è assai difficile farli stare in silenzio». Il vaniloquio filtrato dai cellulari, il flusso incessante delle notizie, il “chattare” senza tregua e senza contenuti veri, ma spesso solo in una marea di fatuità e vacuità, il fiume limaccioso delle volgarità o quello fangoso delle falsità fanno venire talvolta il desiderio che, per questa società della comunicazione di massa superinflazionata, si compia quanto si annuncia nel libro dell’Apocalisse: «Si fece silenzio nel cielo per circa mezz’ora» (8,1). È come se nell’etere risuonasse un poderoso: “Zitti!”, così da bloccare ogni sproloquio per almeno mezz’ora.
La parola autentica e incisiva, in verità, nasce dal silenzio, ossia dalla riflessione e dall’interiorità, e per il fedele dalla preghiera e dalla meditazione. In mezzo al brusio incessante della comunicazione informatica, alla chiacchiera e all’immaginario televisivo e giornalistico, al rumore assordante della pubblicità, il cristiano (ma non solo) deve sempre saper ritagliare uno spazio di silenzio “bianco” che sia – come accade a questo colore che è la sintesi dello spettro cromatico – la somma di parole profonde, e che non è mero silenzio “nero”, cioè assenza di suono. Il Dio dell’Horeb si svela a Elia non nelle folgori, nel vento tempestoso e nel terremoto bensì in una qol demamah daqqah, in «una voce di silenzio sottile» (1 Re 19, 12). Anche la sapienza greca pitagorica ammoniva che «il sapiente non rompe il silenzio se non per dire qualcosa di più importante del silenzio». È solo per questa via che sboccia la parola sapiente e sensata. Solo così si compie la scelta di campo sottesa a un famoso detto rabbinico: «Lo stupido dice quello che sa; il sapiente sa quello che dice».