GIOACCHINO DA FIORE

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Nel cielo del Sole si allarga attorno all’astro una duplice corona di «spiriti sapienti» che cantano e danzano. Nella seconda corona Dante cerca di identificare alcuni volti, ed ecco brillare un profilo celebre: «lucemi da lato / il calavrese abate Giovacchino, di spirito profetico dotato» (Paradiso XII, 139-141). È una delle figure più affascinanti e forse provocatorie della teologia e spiritualità medievale, noto col toponimo di Fiore a causa del monastero di S. Giovanni in Fiore, da lui fondato sulla Sila, staccandosi dall’Ordine cistercense per costituirne uno nuovo, il Florense appunto.

         Nato attorno al 1135 in un villaggio del Cosentino, egli aveva alle spalle persino un pellegrinaggio in Terrasanta, un decisivo soggiorno nell’abbazia laziale di Casamari, varie interlocuzioni coi papi di allora, da Lucio III a Urbano III e Clemente III, ma soprattutto un’imponente produzione teologica che si accrescerà successivamente con un corteo di scritti apocrifi, opere di autori pseudo-gioachimiti, che divennero spesso sorgente di distorsione del suo pensiero. La morte lo coglierà nel monastero di S. Martino di Casale (Cosenza) il 30 marzo 1202 e le sue spoglie, traslate a S. Giovanni in Fiore, saranno subito oggetto di venerazione, al punto tale che ancor oggi si auspica che il culto locale venga riconosciuto dalla Chiesa universale.

         In traduzione italiana appaiono, ad opera di uno studioso di alta qualità come Gian Luca Potestà, direttore scientifico del Centro Internazionale di studi gioachimiti, i primi quattro libri dello scritto più celebre dell’abate calabrese, una sorta di storia universale partendo dalle origini fino ad affacciarsi sul futuro, intitolata Concordia Novi et Veteris Testamenti, a lungo elaborata tra il 1183 e il 1196, e così diffusa da aver lasciato ben 42 copie manoscritte del testo. L’opera è articolata in cinque libri, l’ultimo dei quali è esteso quanto la somma dei precedenti e che verrà pubblicato in un altro tomo.

         Arduo è sintetizzare non solo la trama ma anche la metodologia analitica. Lasciamo, perciò, la parola al curatore: «L’impresa dottrinale della Concordia ruota intorno alla questione della leggibilità della storia. Poiché questa è interamente racchiusa nel mistero divino, e Dio si è manifestato nella Scrittura, Gioacchino si sforza da un lato di scrutare attentamente la Bibbia per individuare fasi, ritmi e soggetti del corso divinamente ordinato dei tempi, dall’altro di considerare passato e presente per riconoscervi il puntuale inverarsi di quanto preannunciato».

         L’Italia è, in filigrana, al centro della sua visione geopolitico-teologica perché sede del papato, i cui pontefici primeggiano accanto a imperatori e re. Sorprendente, però, sono sia le modalità interpretative adottate dall’abate, sia lo stesso dettato che non esita a ricorrere a diagrammi e figure, capaci di generare una sorta di esegesi visiva. Impressionante è la complessità architettonica del pensiero gioachimita dal cui processo espressivo si esce forse stremati ma pure conquistati da tanto scialo di genialità e originalità. L’asse portante della sua ermeneutica è la categoria «concordia» attestata connettendo figure, simboli, conflitti e armonie dell’Antico e del Nuovo Testamento.

         Le sinossi che egli instaura sono incessanti, per cui, ad esempio, ad Abramo è accostato Zaccaria, padre del Battista, così come vengono appaiate le loro mogli, Sara ed Elisabetta, mentre Isacco, figlio di Abramo, rimanda ovviamente allo stesso Battista; Gesù ha la sua prefigurazione in Giacobbe-Israele e i dodici patriarchi ebrei dialogano con i dodici apostoli, mentre alla sequenza delle generazioni israelitiche corrisponde quella della genealogia cristologica e così via. In pratica si tratta di quel procedimento tradizionale detto «tipologia», secondo il quale i soggetti dell’Antico annunciano quelli del Nuovo. A queste corrispondenze binarie si intrecciano quelle trinitarie perché il Dio cristiano opera nell’intera storia della salvezza e quindi in azione sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

         Naturalmente non mancano in questo affresco storico-teologico ammiccamenti concreti alle vicende contemporanee a Gioacchino. La dialettica papato-impero (col Barbarossa in azione e, a Gerusalemme, Saladino) è letta con sfumature più variegate rispetto a un altro cistercense, Goffredo di Auxerre, dalle posizioni più nette e intransigenti. Nelle pagine finali del quarto libro si intravede uno squarcio sull’attualità: l’abate calabrese denuncia la tentazione mondana che aggredisce chierici e monaci, in questo divenuti uniformi, tanto che a distinguerli è solo l’abito, entrambi però lontani dall’ideale apostolico delle origini.

         Tanto altro si scopre nelle pagine visionarie di Gioacchino, un personaggio che ha interpellato figure molto lontane, non solo cronologicamente, rispetto a lui come Montaigne, Hegel, Ernst Bloch, de Lubac e persino Marx. Il suo messaggio, in contrappunto con Bonaventura e Tommaso d’Aquino, ha fecondato movimenti ecclesiali e cambi d’epoca, proprio sulla base della sua visione della storia e dell’escatologia. La sua tendenza a ordinare la vicenda umano-divina a livello triadico, dominata da un triteismo teologico-storico – per cui tre sono le tappe affidate al Padre, al Figlio e allo Spirito (quest’ultima più oscura, ma grembo di una Chiesa riformata, santa e rigenerata) – ha influito in modo sotterraneo in tante fasi ecclesiali di evoluzione e di transizione.

GIANFRANCO RAVASI

Gioacchino da Fiore, Concordia del Nuovo e dell’Antico Testamento, Viella, pagg. 342, € 38,00.