L’ANIMA E L’ICONA

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Neque negant se scire quod sciunt et confitentur se nescire quod nesciunt. Come spesso, sant’Agostino ama essere un giocoliere della parola: in questa frase con un colpo di spatola linguistica traccia il profilo dei veri maestri che «non negano di sapere ciò che sanno e confessano di non sapere ciò che non sanno». Questa affermazione è incastonata nel trattato De anima (IV,11,15), nato da una polemica con un giovane laico, tale Vittore, che aveva criticato un opuscolo agostiniano sul tema dell’origine delle anime (si tratta forse dell’Epistola 190).

         Il grande Padre della Chiesa, tra il 419 e il 420, imbandisce una tavola sontuosa di argomentazioni, sia razionali, sia di esegesi biblica attorno sostanzialmente a due nodi capitali. Il primo riguarda la ribadita certezza sulla natura incorporea dell’anima che è creata da Dio, mentre in secondo luogo il santo sospende il giudizio sull’«origine delle anime che vengono date ai singoli uomini» (come scriverà in una successiva “recensione” del suo scritto nelle Retractationes, cioè «nuove trattazioni» o riprese).

         Il testo, che ora viene offerto con l’originale latino, è impegnativo nella lettura anche perché i quattro «libri» o parti hanno diversi destinatari: il primo a Renato, un monaco che gli aveva inviato il pamphlet dell’avversario, il secondo a Pietro, un presbitero conquistato dalle tesi del giovane Vittore, al quale sono invece riservati gli ultimi due «libri». Rimane, comunque, aperto il tema più delicato della immissione/trasmissione dell’anima, affrontato già da Tertulliano, autore cristiano del primo trattato sull’anima che aveva proposto il cosiddetto «traducianesimo», secondo il quale l’anima era trasmessa dai genitori ai figli con la generazione.

         Agostino, che pure era tentato di accostarsi a questa tesi per rendere coerente la sua dottrina del peccato originale, nelle citate Ritrattazioni ribadirà la sua esitazione: «Per quello che riguarda l’origine dell’anima, sapevo che era stata fatta per essere unita al corpo, ma non sapevo allora, come non so adesso se essa discenda dal primo uomo oppure se continuamente venga creata singolarmente per ciascun individuo».

         A questo punto, dato che siamo risaliti all’antica letteratura cristiana, cerchiamo di virare dall’Occidente africano di Agostino all’Oriente di alcuni secoli dopo. Siamo, infatti, in Grecia a cavallo tra l’VIII e il IX secolo, sulle pendici del monte Olimpo della Bitinia, nell’attuale Turchia asiatica, nel monastero di Saccudion. Là si era raccolta quasi un’intera famiglia costantinopolitana: il protagonista, Teodoro lo Studita che presenteremo, suo padre, due fratelli e lo zio materno. Alla porta di quell’oasi di silenzio contemplativo bussò ben presto la storia con imperatori, regine, vescovi e soprattutto l’eco dei duelli intestini tipici dell’èra bizantina. Così, Teodoro fu costretto all’esilio per ben tre volte, sballottato qua e là da una polemica nella quale egli si ergeva come un baluardo spirituale.

         Siamo, infatti, nell’epoca delle lotte iconoclastiche nelle quali ragioni teologiche, spesso fragili, venivano impugnate a sostegno di ben più solide e corpose motivazioni politiche. Lui, che era stato autore di solenni Catechesi per i suoi monaci, fu così costretto a elaborare tre Confutazioni contro gli iconoclasti che appaiono per la prima volta nella nostra lingua ad opera di Antonio Calisi, un diacono dell’Eparchia (diocesi) di rito bizantino di Lungro (Cosenza), popolata di italo-albanesi. Se volessimo annodare la riflessione molto ramificata di Teodoro attorno a un asse, potremmo dire che è l’Incarnazione di Cristo, Dio con un volto umano, a giustificare la legittimità dell’icona e, quindi, dell’intera arte cristiana.

         Già san Paolo definiva Cristo «immagine (eikôn) del Dio invisibile» (Colossesi 1,15). L’icona ricalca e concretizza proprio questa qualità e fa «rivolgere i nostri occhi sul volto di Colui che, sebbene sia Dio, ha preso i tratti di un’esistenza umana propria», come commenta Calisi. Noi, però, vorremmo concludere questa breve evocazione di una figura poco nota della Chiesa orientale (sul tema iconologico ben più famoso fu san Giovanni Damasceno, anteriore a lui di un secolo) citando un altro suo testo presente in una suggestiva antologia di brani dei Padri della Chiesa riguardo una pratica cristiana fondamentale soprattutto ai nostri giorni.

         È il titolo stesso della raccolta, mutuato da una frase della neotestamentaria Lettera agli Ebrei (13,2), a svelarla: «Non dimenticate l’ospitalità». Ebbene, Teodoro sull’ingresso della foresteria del suo monastero di Saccudion aveva inciso questo epigramma: «Venite, entrate sotto il tetto che vi accoglie, voi viaggiatori affaticati, ricevete la mia ospitalità: un pane sospirato che nutre il cuore, una dolce bevanda versata in abbondanza, indumenti che scacciano il freddo. Tutto questo, amici, me lo donò gratuitamente tra i suoi doni beatissimi il mio Signore Gesù, colmo di ricchezze. Benedite lui che nutre l’universo e per me, in cambio offrite solo una preghiera perché lassù, accolto come ospite, mi sia concesso di entrare nel seno di Abramo».

GIANFRANCO RAVASI

Agostino, L’anima e la sua origine, a cura di Giovanni Catapano ed Enrico Moro, Città Nuova, pagg. 316, € 32,00.

Teodoro lo Studita, Contro gli avversari delle icone, a cura di Antonio Calisi, Jaca Book, pagg. 160, € 20,00.

«Non dimenticate l’ospitalità», a cura di Lisa Cremaschi, Paoline, pagg. 254, € 15,00.