Nell’attuale società secolarizzata tante volte si declama l’eclisse del sacro, altrettante volte si proclama il suo ritorno e sempre si conclama che si tratta di una categoria ambigua, mentre si reclama la sua necessità. Una pattuglia di una quindicina di studiosi di differenti estrazioni e competenze si dedica ora a «quel che resta del sacro», raccogliendo filamenti ben robusti che si innervano nell’esperienza religiosa, nell’arte e persino nelle neuroscienze. È nata, così, una silloge che – come accade spesso in questo genere letterario – è da comparare a un arcipelago le cui isole sono autonome e con diversa vegetazione, pur appartenendo a un sistema geografico che trova unità solo nella mappa d’insieme.
Indispensabile è, allora, partire proprio da quest’ultima che, fuor di metafora, è la sintesi iniziale, dal titolo dialettico («utilità e danno della nozione di sacro»), elaborata da un raffinato studioso del fenomeno, Andrea Aguti dell’università di Urbino. Il taglio adottato è quello della filosofia e antropologia della religione per cui si parte obbligatoriamente dal classico Il sacro di R. Otto (1917) secondo il quale siamo davanti a un sinonimo del divino. Concetto che sarà paradossalmente «desacralizzato» da E. Durkheim e R. Caillois che invece rubricheranno come sacri i valori intangibili del vincolo sociale, mentre M. Eliade mediava identificando nella «realtà satura d’essere» la ierofania.
Si potrebbe elencare a lungo le oscillazioni semantiche di questa categoria, strattonata anche a esorcizzare la violenza sociale con R. Girard, fermo restando che biblisti e teologi espungono l’accezione sinonimica di due termini, «sacro» e «santo», perché il primo sarebbe oggettivo, rituale, spaziale, mentre il secondo è morale, personale, esistenziale (in questo brilla il messaggio dei profeti, ripreso ed elaborato da E. Lévinas). Con la premessa di Aguti sullo sfondo, si può procedere nell’arcipelago le cui isole, però, rivelano molto altro.
Ovviamente è impossibile, in una recensione dai limiti così circoscritti come la nostra, attraccare a ognuna della dozzina di isole tematiche, governate da autori diversi. Se volessimo stare ai nostri interessi immediati, punteremmo subito allo studio biblico sul binomio «puro-impuro» che è un modo per tracciare la linea di confine tra sacro e profano, frontiera – riferendoci a un altro saggio – molto più sottile e mobile di quanto si pensi a livello comune. Oppure ricorreremmo al territorio del dialogo interreligioso e interculturale ove si erge il memoriale di un nostro amico e grande artefice di confronti come è stato mons. P. Rossano.
Oppure, per rimanere nell’ambito delle amicizie personali, sosteremmo davanti al ritratto filosofico di J. Kristeva col suo «sacro affettivo» (aggiungerei ai testi citati anche il suo «amore» per Teresa d’Avila): a lei sono accostate altre figure esemplari come M. Zambrano e A. Damasio e la sua lettura «bio-semiotica». Attrae anche l’imponente percorso tra «miti, musica e numeri», per non parlare poi del ricorso al «paradigma di Dostoevskij», autore che riappare quando ci si interroga sul «sacro, il diabolico e la fiction», ove si trova in compagna di Sartre e persino di Stephen King (ma si risale anche a san Paolo), in un esercizio di estetica analitica e fenomenologica del sacro.
Curiosa è la coppia Darwin e Lombroso con l’influsso del primo che, letto nella versione francese dal secondo, lo spinse a trasformare la «selezione» naturale darwiniana in «elezione» naturale. Suggestiva è l’area dedicata alla «psicologia e fenomenologia del sacro», ove il concetto si fluidifica, si inoltra sui viali dell’infosfera, si immanentizza nel self-fullfillment, con certe cadute dal messaggio al massaggio e dallo yoga allo yogurt della dieta. C’è, però, in molti saggi proposti il serpeggiare di un fiume talora sotterraneo, altre volte in emersione.
Esso reca il nome, un po’ magico (o mantra) di «neuroscienza», una disciplina per altro di alta complessità, messa in dialogo con la teologia nell’articolo sulle «tentazioni del sacro», tra le quali spicca quella gnostica della disincarnazione e disumanizzazione del sacro stesso. Un saggio specifico, però, reca nel titolo promettente un riferimento esplicito al «cervello religioso» e, se si vuole, alla «neuroteologia» (Aldous Huxley). Nella riflessione ramificata proposta dall’autore, che è docente proprio di neurologia, gli spunti che possono interessare il teologo sono vari, a partire dai fenomeni di percezione religiosa che, a livello cerebrale, si connettono con le facoltà del linguaggio e della socialità, subendone anche le relative degenerazioni o deviazioni.
Tuttavia, si segnala – contro ogni riduzionismo «scientista» – che tale percezione non si esaurisce nella pura e semplice componente neuronale o nei meri meccanismi biologici, nella consapevolezza della necessità del ricorso a un’interpretazione più lata di indole umanistica. La nostra semplificazione sintetica vuole solo evocare quanto sia delicata e complessa la questione. Nella stessa scia ci accontentiamo di segnalare che i citati studi su Lombroso e Dostoevskij presenti nel volume si inerpicano lungo sentieri analoghi, in particolare con lo scrittore russo e il suo capolavoro I fratelli Karamazov, adottato come «paradigma» per la distinzione tra mente e cervello attraverso il «dispiacersi per Dio», una categoria spirituale dostoevskiana di non semplice ermeneutica.
GIANFRANCO RAVASI
Autori Vari, Quel che resta del sacro, Mimesis, pagg. 366, € 26,00.