Print Mail Pdf
condividi  Facebook   Twitter   Technorati   Delicious   Yahoo Bookmark   Google Bookmark   Microsoft Live   Ok Notizie

Ravasi


La Bibbia Secondo Borges

in occasione del Cortile dei Gentili in Argentina a Buenos Aires e a Cordoba, un testo del Card. Gianfranco Ravasi 

Sabbia come pietra

È per merito di Borges che anch’io ho sognato Buenos Aires, la sua città nella quale è sbocciata la sua vena poetica, quando nel 1923 comporrà Fervor de Buenos Aires. La parabola letteraria borgesiana si leverà poi anche nel cielo di altre nazioni e si spegnerà in Europa, a Ginevra con l’ultima opera Los conjurados (1985), ove in filigrana appariva la Confederazione elvetica, ultimo suo approdo. Ora che miei piedi calcano la terra argentina, il sogno continua a svolgersi perché la Buenos Aires di Borges conserva ancora un carattere magico che non è sostituito dalla realtà storica presente. È ciò che esprime la poesia Las calles che funge da incipit alla raccolta poetica:

«Ormai le strade di Buenos Aires

sono le viscere della mia anima.

Non le strade veementi

molestate da smanie e trambusti,

ma la dolce strada della periferia

trepida di penombra e di crepuscolo

e quelle fuori mano

prive di alberi pietosi

dove austere casette s’avventurano appena».

Quella che ora vorrei proporre non è un’esegesi critica di Borges che, per altro, ha già uno stuolo immenso di interpreti, pronti a esercitarsi su una produzione letteraria molto mobile e simile a un arcobaleno. È piuttosto la testimonianza di un lettore appassionato che non ha mai incontrato personalmente lo scrittore, anche se per due volte – attraverso suoi amici italiani come Domenico Porzio e Franco Maria Ricci – il contatto fu ravvicinato, ma poi sfumato per ragioni esterne. Il mio incontro è, quindi, legato alle sue pagine e all’autoritratto che da esse affiora, un profilo fluido e incomprimibile nello stampo freddo delle parole perché «l’universo è fluido e mutevole, il linguaggio rigido». Una fisionomia, la sua, segnata dalla mobilità di un eclettismo nobile, erede della curiositas insonne della classicità latina.

          Per questo ci si sente catturati e alla fine imprigionati, come scriveva José María Poirier, dalla «ragnatela del suo soave scetticismo, dal suo farraginoso enciclopedismo, dal suo ecumenismo eclettico». Immersi nel suo mondo ci si trova sballottati tra storia e mito, anche perché per lui «forse la storia universale è la storia di un pugno di metafore», anzi, «la storia universale è quella di un solo uomo».

In uno dei 24 brani in prosa, posti accanto alle 29 poesie dell’Artefice (1960), emblematica è la parabola che intreccia l’universo esterno e l’io personale:

«Un uomo si propone di disegnare il mondo. Nel corso degli anni

popola uno spazio con immagini di province, di regni, di montagne,

di baie, di vascelli, di isole, di pesci, di case, di strumenti, di astri, di

cavalli e di persone. Poco prima di morire, scopre che quel paziente

labirinto di linee traccia l’immagine del suo volto».

          Persino il tempo che scorre inesorabile apparentemente all’esterno di noi, è in realtà in noi, anzi è il nostro io, come si afferma nelle Altre inquisizioni (1952):

«Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi

trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono

la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco».

È per questo, allora, che – come si legge nei Congiurati – «non c’è un istante che non sia carico come un arma».

Per Borges le frontiere sono sempre mobili ed esili: non c’è mai una cortina di ferro tra verità e finzione, tra veglia e sogno, tra realtà e immaginazione, tra razionalità e sentimento, tra essenzialità e ramificazione, tra concreto e astratto, tra teologia e letteratura fantastica, tra icasticità anglosassone ed enfasi barocca… Le due parabole gemelle che chiudono il Discorso della Montagna di Gesù (Matteo 7,24-27), ove di scena sono i due costruttori antitetici sulla roccia e sulla sabbia, vengono così ribaltate ma neanche smentite da Borges nel suo programma esistenziale e letterario globale: «Nulla si edifica sulla pietra, tutto sulla sabbia, ma dobbiamo edificare come se la sabbia fosse pietra». E alla fine fiorisce il paradosso supremo: «La vita è troppo povera per non essere anche immortale».

L’ossimoro della fede di Borges

Ma lasciamo l’orizzonte così sconfinato della Weltanschauung di Borges per puntare in modo molto semplificato e quasi “impressionistico” su uno spicchio molto rilevante della sua biografia e della sua opera, quello del tema religioso. Il mio personale approccio al grande scrittore argentino fu innanzitutto guidato proprio da questa urgenza che premeva in molti suoi scritti e, anche se spesso il mio contatto è avvenuto attraverso le traduzioni, mi confortava la curiosa battuta che Borges aveva usato riguardo alla versione di W. Beckford eseguita da W.E. Henly: «L’originale è infedele alla traduzione» (così in Sobre el ‘Vathek’ di William Beckford), riconoscendo una sorta di primato alla resa interpretativa. Dopo tutto era stato ancora lui a rivoluzionare persino il rapporto tra scrittura e lettura: «Altri menino vanto delle parole che hanno scritto; il mio orgoglio sta in quelle che ho letto».

E nelle sue letture un primato indiscusso fu quello assegnato alla Bibbia come lui stesso aveva confessato a María Esther Vázquez: «Devo ricordare mia nonna che conosceva a memoria la Bibbia, in modo che posso essere entrato nella letteratura attraverso la via dello Spirito Santo». La nonna paterna, Fanny Haslam Arnett, era infatti inglese e anglicana osservante ed era stata lei a iniziare il piccolo Jorge Luis alle Scritture e alla lingua inglese alta. In una conferenza tenuta a Harvard nel 1969, dedicata all’Arte di raccontare storie, Borges, esaltando l’epica come la forma più antica della poesia, riconduceva a un trittico le opere capitali per l’umanità: «l’Iliade, l’Odissea e un terzo “poema” che spicca notevolmente sugli altri: i quattro Vangeli… Le tre storie – quella di Troia, di Ulisse e di Gesù – sono bastate all’umanità… Ma nel caso dei Vangeli c’è una differenza: credo che la storia di Cristo non possa essere narrata meglio».

I Vangeli, quindi, si rivelano come una sorta di canone supremo che non è passibile di altra ermeneutica se non quella della “ri-scrittura” letterale o al massimo del ricorso alla deriva dell’apocrifo o all’alterazione a caleidoscopio. Famosa in quest’ultimo senso è la metamorfosi operata nella poesia Cristo in croce ove Gesù diventa il “terzo crocifisso” e non più quello centrale:

«Cristo in croce. I piedi toccano terra.

Le tre croci sono di uguale altezza.

Cristo non sta nel mezzo. Cristo è il terzo…».

Inoltre per Borges il linguaggio poetico è analogo a quello sacro; è frutto di un’ “ispirazione” trascendente, un po’ come aveva intuito già la Bibbia che usava la stessa radice verbale che definisce il profeta (nb’) per designare l’arte musicale dei cantori del tempio (1Cronache 25,1). Dichiarava Borges nella sua Professione di fede letteraria: «Del mio credo letterario posso affermare ciò che vale per quello religioso: è mio perché credo in esso, non perché inventato da me». A questo punto prima di esemplificare il suo contatto profondo con la Bibbia, oggetto per altro di un’ampia bibliografia, è legittimo interrogarci sulla “fede” di Borges, al di là della consueta etichetta di “agnostico” assegnatagli dalla vulgata critica. Quest’ultima, però, si trova costretta subito a una serie di precisazioni, anche perché – come sopra si diceva – l’eclettismo, la curiositas, la fluidità ideale dello scrittore obbligano i suoi interpreti a continue rettifiche.

Significativa è la definizione applicatagli da un importante e simpatetico scrittore come Leonardo Sciascia: «È il più grande teologo del nostro tempo: un teologo ateo». Questo ossimoro era sviluppato da un altro suo ammiratore e collega, John Updike, così: «Se il cristianesimo non è morto in Borges, è però in lui sopito e sogna capricciosamente. Borges è un precristiano che il ricordo del cristianesimo riempie di premonizioni e di orrore». Certo è che una preoccupazione metafisica per il trascendente corre come un brivido per tutta l’opera borgesiana ed è qualcosa di più di quella “consolazione della filosofia” alla Boezio che gli attribuiva Luis Harss. Infatti qui si conferma quell’oscillazione tra poli estremi che abbiamo già sottolineato. A differenza dell’abbé Cénabre dell’ Imposture di Georges Bernanos che dall’assenza piombava nel nulla e nel vuoto della negazione pienamente atea, Borges costantemente oscilla tra assenza e presenza, tra sogno e verità. Scriveva infatti: «Nelle crepe Dio è celato e attende… Dio mio sognatore, continua a sognarmi».

In questa luce si spiegano tante sue affermazioni che interrogano la religione nelle forme più diverse, spesso in modo folgorante, come nella battuta dell’Aleph (1949), per la quale «morire per una religione è più semplice che viverla con pienezza». O ancora secondo il suo gusto della ritrascrizione dei detti evangelici variandoli, l’appello alla carità, modellato sulla scia della frase di Gesù ignota ai Vangeli e citata da san Paolo «c’è più gioia nel dare che nel ricevere» (Atti 20,35) viene da Borges trasformata così: «Chi dà non si priva di ciò che dà. Dare e ricevere sono la stessa cosa». Oppure si può rimandare alla tensione verso un’epifania che regge l’Attesa:

«Anni di solitudine gli avevano insegnato che i giorni, nella memoria,

tendono a uguagliarsi, ma che  non c’è un giorno, neppure di carcere o

di ospedale, che non porti una sorpresa, che non sia, in controluce,

una rete di minime sorprese».

Impressionante in questo suo itinerario nell’orizzonte della religione (non di rado di scena sono “le religioni”, anche se un primato è assegnato sempre al cristianesimo) è il suo ritratto del filosofo Baruch Spinoza, colto nel tentativo di “pensare Dio” attraverso una concezione dai risvolti panteistici, e di farlo “con geometria delicata”, evidente allusione a una delle sue opere più note, l’Ethica more geometrico demonstrata. Ecco alcuni versi di quell’abbozzo:

«Qualcuno costruisce Dio nella penombra.

Un uomo genera Dio. È un ebreo

dai tristi occhi e dalla pelle citrina;

lo porta il tempo come porta il fiume

una foglia che, nell’acqua che declina,

non importa. Il mago insiste e scolpisce

Dio con geometria delicata;

dalla sua malattia, dal suo nulla,

continua a erigere Dio con la parola…».

L’anguilla di Giobbe

Ora, però, lasciamo questa regione specifica eppure vasta del panorama letterario ed esistenziale di Borges per puntare a un perimetro più ristretto eppure particolarmente ricco di sollecitazioni, tant’è vero che qui si è esercitata una piccola legione di studiosi. Intendiamo riferirci alla già menzionata passione dello scrittore per la Bibbia. In una delle Siete conversaciones con Borges Fernando Sorrentino (1996) citava questa dichiarazione dello scrittore: «Di tutti i libri della Bibbia quelli che mi hanno impressionato sono il libro di Giobbe, l’Ecclesiaste e, evidentemente, i Vangeli». Il nostro percorso sarà solo evocativo procedendo per esemplificazioni, soprattutto riguardo ai Vangeli che hanno costituito un referente capitale per Borges. È indiscutibile, comunque, che la Bibbia abbia offerto a Borges una specie di lessico tematico, simbolico, metaforico, archetipico e persino stilistico-retorico.

Nell’Antico Testamento la predilezione va al libro di Giobbe a cui l’autore dedicò, tra l’altro, una conferenza all’ “Istituto de Intercambio Cultural Argentino-Israelí” di Buenos Aires, il cui testo venne raccolto nel 1967 nelle sue Conferencias. D’altronde egli aveva scritto una prefazione alla Exposición del Libro de Job di Fray Luis de León , un classico spagnolo del “siglo de oro” a lui particolarmente caro. Si deve riconoscere che Borges coglie un nucleo ermeneutico significativo di quest’opera biblica. Essa è così proteiforme da meritarsi il giudizio acuto di s. Girolamo: «Interpretare Giobbe è come cercare di afferrare un’anguilla o una piccola murena: più la stringi, più ti sfugge di mano». Una caratteristica cara ovviamente a un autore così sfuggente e refrattario a ogni classificazione come Borges.

Ebbene, egli centra la sua analisi sull’apice del libro biblico, cioè sui due discorsi finali divini dei  cc. 38-39 e 40-41: in essi Dio prospetta a Giobbe attraverso la tecnica dell’interrogazione e del mistero, l’esistenza di un ordine trascendente che riesce a comporre in unità la totalità del essere e dell’esistere attraverso una ‘esah, un “progetto”. Si tratta, quindi, non di un’irrazionalità assurda e fatale che compone gli antipodi della realtà in modo casuale, bensì di una metarazionalità che è sostenuta, dunque, da una logica trascendente e inscrutabile. Per questo Giobbe ha ragione di protestare perché essa deborda dalla razionalità umana limitata, ma al tempo stesso ha il torto di applicare e di imporre ad essa la sua circoscritta capacità “visiva” un po’ come accade a chi – contemplando un capolavoro pittorico – si ferma solo all’analisi delle pennellate o dei riquadri di colore, senza rivolgere uno sguardo panoramico all’opera.

Sarà, quindi, solo per rivelazione divina (che è appunto lo sguardo d’insieme) che Giobbe potrà comprendere la collocazione del suo dolore nell’infinito disegno della ‘esah divina: «Io ti conoscevo per sentito dire, i miei occhi ora ti hanno visto», confesserà alla fine (42,5) il grande sofferente. Gli enigmi del cosmo e della storia si sciolgono solo in questa prospettiva trascendente, ove appunto si posiziona anche l’enigma tematico del libro, quello del male e del dolore.

Assassino Caino o Abele?

Sopra si diceva che accanto a Giobbe, Borges confessava di amare anche Qohelet/Ecclesiaste. Ciò è comprensibile, considerato il taglio critico di questo autore biblico, convinto che tutta la realtà sia hebel, cioè vuoto, fumo, vanità (1,1; 12,8), che la storia non sia che un’incessante ruota di eventi reiterati, che «grande sapienza è grande tormento perché chi più sa più soffre» (1,18) e che «tutte le parole sono logore e l’uomo non può più usarle» (1,8).

Questo fa comprendere che – pur nella rarità delle citazioni esplicite (ricordiamo soprattutto la poesia Eclesiastés I,9 presente in La cifra (1981), che è basato sul celebre motto qoheletico “Non c’è nulla di nuovo sotto il sole”, reso da Borges come “Nada hay tan antiguo bajo el sol”) – l’Ecclesiaste possa essere stato un compagno di viaggio nelle esplorazioni esistenziali dello scrittore, come attesta la tesi Borges, lector de Qohelet di Gonzalo Salvador Vélez (Institut Universitari de Cultura, Barcelona 2004).

L’orizzonte borgesiano anticotestamentario perlustrato da Edna Aizenberg nel suo studio Borges, el tejedor del Aleph y otros ensayos;  del hebraismo al poscolonialismo (Vervuert Iberoamericana, Frankfurt am Main – Madrid 1997), potrebbe infine essere illustrato anche da un’altra pericope biblica che a più riprese stimolò lo scrittore e che da lui è affrontata – potremmo dire – in modo qoheletico.

Intendiamoci riferirci al racconto di Caino e Abele (Genesi 4,1-16) che ebbe un’evocazione poetica in una breve composizione de La rosa profunda (1975) intitolata – come spesso ama fare Borges ricorrendo alle citazioni bibliche – Génesis IV,8:

«Accade nel primo deserto.

Due braccia scagliarono una gran pietra.

Non ci fu un grido. Ci fu sangue.

Ci fu per la prima volta la morte.

Non ricordo se ero Abele o Caino»

Accanto ad essa si deve, invece, collocare la più ampia ripresa di questa scena biblica presente nell’Elogio dell’ombra (1969) ove i due fratelli si incontrano di nuovo dopo la morte di Abele in una atmosfera dal taglio escatologico, anche se la scena è ambientata nel deserto e alle origini del mondo. Si siedono, accendono un fuoco, mentre scende il crepuscolo e le stelle, ancora senza nome, si illuminano in cielo. «Alla luce delle fiamme Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e, lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca, chiese che gli fosse perdonato il delitto. Abele rispose: “Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più: stiamo qui insieme come prima”. “Ora so che mi hai perdonato – disse Caino – perché dimenticare è perdonare”. Abele disse lentamente: “È così. Finché dura il rimorso dura la colpa”».

C’è chi ha visto in questo testo una concezione morale relativistica per cui si opera uno slittamento  insensibile tra bene e male, vero e falso, virtù e vizio. In realtà, qui si assiste piuttosto a quel processo di ribaltamento o di alterazione che sopra abbiamo indicato e che Borges conduce per mostrare le infinite potenzialità di un testo archetipico. Esso è passibile di continue ritrascrizioni e, in questo caso, l’approdo è a una celebrazione paradigmatica del perdono che elide totalmente il delitto: attraverso l’oblio si cancella la vendetta e quindi  la colpa altrui, che così viene dissolta. Rimane, certo, sempre in azione la fluidità della realtà umana storica e quindi etica che invano – agli occhi di Borges – la parola anche “ispirata” cerca di comprimere in asserti definitori e definitivi.

Fino agli «ultimi passi sulla terra»

«La nera barba pende sopra il petto.

Il volto non è il volto dei pittori

È un volto duro, ebreo.

Non lo vedo

 e insisterò a cercarlo

fino al giorno

dei miei ultimi passi sulla terra».

È ormai nel crepuscolo della sua esistenza quando Borges scrive questi versi del Cristo in croce datandoli “Kyoto 1984”. Sono versi di alta tensione spirituale, da tutti citati quando si vuole definire il suo rapporto col Cristo, un incontro atteso ma non avvenuto in maniera piena, fermo restando che “l’ultimo suo passo sulla terra” a noi è ignoto. Maria Lucrecia Romera scriveva che «Borges affronta il Cristo tragico della Croce… e non quello dottrinario [teologico] della Risurrezione… La sua non è l’ottica della fede del credente, ma dell’ inquietudine del poeta agnostico». Tuttavia bisogna subito aggiungere che a Borges per certi versi si adatta la considerazione generale che faceva lo scrittore francese Pierre Reverdy: «Ci sono atei di un’asprezza feroce che s’interessano di Dio molto più di certi credenti frivoli e leggeri». Borges non aveva assolutamente “l’asprezza feroce” dell’ateo, ma la sua era una ricerca certamente più intensa di quella di molti credenti pallidi e incolori. La sua era un’ inquietudine profonda, celata sotto la scorza di un dettato compassato e venato di distacco se non di ironia.

Questa ricerca è splendidamente illustrata in un famoso testo dell’Artefice intitolato con un rimando a un altro grande amore borgesiano, Dante, Paradiso, XXXI, 108. Nel contesto di quel verso il poeta fiorentino rappresentava appunto «l’antica fame non sen sazia» di chi, contemplando l’immagine di Cristo stampata sul velo della Veronica custodito in S. Pietro a Roma, si chiedeva: «Signor mio Gesù Cristo, Dio verace, / or fu sì fatta la sembianza vostra?» (vv. 107-108). Da questo spunto Borges crea la sua riflessione che procede dal fatto che del volto di Cristo non abbiamo nessun ritratto nei Vangeli, tant’è vero che nei primi secoli cristiani l’arte oscillò tra un Gesù affascinante sulla scia simbolica del Salmo messianico 45, «Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo» (v.3), e un Gesù repellente sulla falsariga del Servo messianico del Signore cantato da Isaia come figura che «non ha bellezza capace di attirare i nostri sguardi o splendore che generi piacere» (53,2).

Ecco allora, l’intuizione di Borges: il volto di Cristo è da cercare negli specchi ove si riflettono i visi umani. Tra l’altro, era stato lo stesso Gesù a ricordare che tutto ciò che si fa «a uno solo dei suoi fratelli più piccoli» affamati, assetati, stranieri, nudi, ammalati e carcerati lo si fa a lui (Matteo 25,31-46). Dietro i lembi spesso deformi dei volti umani si cela dunque l’immagine di Cristo e, al riguardo, lo scrittore rimanda a s. Paolo secondo il quale «Dio è tutto in tutti» (1 Corinzi 15,28). Ecco, allora, l’invito di Borges a seguirlo in questa ricerca umana del Cristo presente nelle facce degli uomini.

«Abbiamo perduto quei lineamenti, come si può perdere

un numero magico, fatto di cifre abituali; come si perde

un’immagine nel caleidoscopio. Possiamo scorgerli e non

riconoscerli. Il profilo di un ebreo nella ferrovia sotterra-

nea è forse quello di Cristo; le mani che ci porgono alcune

monete a uno sportello forse ripetono quelle dei soldati

che un giorno, lo inchiodarono alla croce. Forse un tratto

del volto crocifisso si cela in ogni specchio; forse il volto

morì, si cancellò, affinché Dio sia tutto in tutti».

“Fui amato… e sospeso a una croce”

Sempre nell’Artefice viene ricreata un’altra scena legata al Cristo crocifisso che – come si è già detto – occupa sul Golgota non la posizione centrale, ma la terza, ultimo tra gli uomini infelici. Come sempre, il riferimento è a un passo evangelico, Luca, XXIII: sono i versetti 39-43 di quel capitolo ove è descritto l’atto estremo di Gesù in croce «nella sua fatica ultima di morire crocifisso», ossia il perdono delle colpe al malfattore pentito e la promessa dell’ingresso nel paradiso. Come commentava uno dei maggiori teologi del secolo scorso, Hans Urs von Balthasar, «quando il ladrone guarda Cristo trafitto comprende che la sua colpa è assorbita ed espiata in quella ferita… Gesù muore perdonando. Non è più solo. Nell’arrivare presso il Padre ci stringe a sé nel suo perdono». Ecco alcuni versi della ritrascrizione borgesiana di quell’atto estremo di Cristo.

«Gentile o ebreo o solamente un uomo

il cui volto nel tempo s’è perduto…

Nella sua fatica ultima di morire crocifisso,

udì, tra i vilipendi della gente,

che colui che moriva accanto a lui

era un dio e gli disse ciecamente:

Ricordati di me quando sarai

nel tuo regno! E la voce inconcepibile

che un giorno giudicherà tutti gli esseri

gli promise dalla Croce terribile

il Paradiso. Nient’altro si dissero

finché venne la fine…».

Eppure non sfugge a Borges che il giudizio terminale di un’esistenza può anche aprirsi sul baratro infernale. Dio infatti rispetta la libertà umana che sceglie di conservare egoisticamente il talento ricevuto senza impegnarlo nel bene, nella carità, nella donazione. È così che il versetto conclusivo di Matteo riguardante la parabola dei talenti viene assunto dallo scrittore a titolo di un’altra sua poesia, Matteo XXV, 30, contenuta nella raccolta L’altro, lo stesso (1969): «Il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre: là sarà pianto e stridore di denti».

Ora, alla base della cristologia borgesiana c’è indubbiamente l’umanità di Gesù di Nazaret che nasce e muore, pur proclamandosi Figlio di Dio e quindi assegnandosi una qualità trascendente. Lo scrittore non ignora questo intreccio tra divino e umano, tra assoluto e contingente, tra eterno e tempo, tra infinito e limite e, pur attestandosi sul versante dell’umanità, non esita a interpretare la coscienza di Cristo in una poesia di straordinaria potenza, come lo è la matrice evangelica originaria che la genera.

Il titolo è, infatti, ancora una volta esplicito: Giovanni, I, 14 (sempre in Elogio dell’ombra). Il versetto è ritagliato da quel capolavoro letterario e teologico che è l’inno-prologo del quarto Vangelo: «Il Lógos (Verbo) divenne sarx (carne) e pose la sua tenda in mezzo a noi». Un versetto che è in contrappunto  con l’incipit solenne dell’inno: «In principio era il Lógos. Il Lógos era presso Dio. Il Lógos era Dio» (1,1). Pensiamo a come il Lógos giovanneo abbia intrigato Goethe  che nel Faust proporrà una gamma di significati per esprimerne la semantica profonda: il Verbo è, certo, Wort, parola, ma è anche Sinn, significato, Kraft, potenza, e Tat, atto, nella linea del valore del parallelo vocabolo ebraico dabar che significa parola e atto/evento. Leggiamo alcune battute di questa sorprendente “autobiografia” del Verbo che è eterno («È, Fu, Sarà») ma è anche «tempo successivo».

«Io che sono l’È, il Fu e il Sarà

accondiscendo ancora al linguaggio

che è tempo successivo e simbolo…

Vissi stregato, prigioniero d’un corpo

e di un’umile anima…

Appresi la veglia, il sonno, i sogni,

l’ignoranza, la carne,

i tardi labirinti della mente,

l’amicizia degli uomini

e la misteriosa dedizione dei cani.

Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce».

Il Vangelo secondo Marco e Borges

A suggello di questo itinerario molto semplificato e solo esemplificativo nel mondo biblico di Borges è suggestivo evocare il decimo e penultimo racconto de Il manoscritto di Brodie (1970) pubblicato in modo autonomo nel 1971 sotto il titolo El Evangelio según Marcos. Attraverso un percorso parabolico paradossale lo scrittore esalta la qualità fortemente performativa, quasi “sacramentale”, del testo sacro. Come si è già detto, Borges, ricalcando la tesi dell’opera Mimesis (1946) di Erich Auerbach, secondo la quale l’Odissea e la Bibbia sono gli archetipi simbolici dell’Occidente, era convinto che «gli uomini lungo i secoli hanno ripetuto sempre due storie: quella di un vascello sperduto che cerca nei mari mediterranei un’isola amata, e quella di un Dio che si fa crocifiggere sul Golgota». Da un lato, quindi, domina la “ripetizione” che non è però mera reiterazione ma ripresa e riattualizzatone, alla maniera del famoso scritto omonimo del filosofo Soeren Kierkegaard (1843).

D’altro lato, però, questa ritrascrizione non è né meccanica né letterale ma ha in sé un’energia costantemente trasformatrice così da rendere la storia sacra primigenia sempre nuova ed efficace. Queste due componenti – ripetizione e performazione – sono stupendamente e terribilmente rappresentate appunto nell’Evangelio según Marcos di Borges.

Come è noto, la vicenda narrativa è ambientata in un piovoso marzo del 1928, nella fattoria La Colorada a Junín in Perú. Lo studente in medicina Baltasar Espinoza giunge in vacanza presso alcuni fattori dall’aria un po’ truce e primitiva, i Gutre, padre, figlio e «una ragazza di incerta paternità». Un’inondazione isola la fattoria e Baltasar scopre una Bibbia in inglese: per ingannare il tempo, inizia a leggere ogni sera, traducendolo, il Vangelo di Marco alla famiglia che lo ospita.

Costoro, nella loro semplicità, non ne restano solo affascinati ma anche completamente conquistati e si convincono a poco a poco che quegli eventi devono riprodursi nel loro presente. È così che i Gutre identificano proprio nel giovane studente il Messia presentato da Marco. E prima che egli parta, al ritirarsi delle acque, essi hanno già preparato il loro Golgota.

«Genuflessi sul pavimento di pietra gli chiesero la benedizione.

Poi lo maledissero, gli sputarono addosso e lo spinsero

fino in fondo al cortile. La ragazza piangeva.

Quando aprirono la porta, Baltasar vide il firmamento. Un uccello

gridò; pensò: È un cardellino! Il capannone era senza il tetto;

avevano staccato le travi per costruire la croce».