PREMESSA alla Lettera apostolica Candor Lucis aeternae
Nel terzo dei quindici trattati che compongono la sua opera teorica più alta, il Convivio, al capitolo XV Dante, grande conoscitore delle Sacre Scritture, cita un passo del libro biblico della Sapienza che esalta così la Sapienza divina: «essa è un riflesso della luce eterna» (7,26), frase divenuta nella versione di san Girolamo, che lo stesso poeta usava, candor lucis aeternae, ossia – come traduce Dante – «candore dell’etterna luce». Papa Francesco ha adottato proprio questa definizione, «splendore della luce eterna» di Dio per iniziare e intitolare la sua Lettera Apostolica in occasione del settimo centenario della morte del sommo Poeta, autore appunto di quel «poema sacro / al quale ha posto mano cielo e terra» (Paradiso XXV, 1-2).
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Il Pontefice ha scelto come data il 25 marzo, solennità dell’Annunciazione della maternità di Maria, anche perché in quel giorno – che in alcune città medievali segnava il Capodanno – prendeva simbolicamente avvio il viaggio di Dante nella «selva oscura». Certo, può essere sorprendente che un Papa, e con lui i suoi predecessori, celebrino colui che aveva scaraventato all’Inferno (XIX, 52-53) tra i simoniaci, nella terza bolgia di Malebolge, un altro Papa mentre era ancora in vita, Bonifacio VIII Caetani. Ma, come avremo occasione di ribadire, è altrettanto vero che l’Alighieri era un incrollabile credente e un raffinato teologo cristiano.
Proprio su questa scia, gli ultimi Papi – a partire da Benedetto XV che compose persino un’enciclica dedicata al poeta nel sesto centenario della sua morte (1921), la In praeclara summorum – fecero brillare la figura dell’autore della Divina Commedia in modo costante e appassionato. Spicca tra loro Paolo VI che aveva dedicato anch’egli una Lettera apostolica al Poeta, l’Altissimi cantus (1965), e che non esitava a dichiarare: «Dante è nostro e ciò affermiamo non già per farne ambizioso trofeo di gloria egoista, quanto piuttosto per ricordare a noi stessi il dovere di riconoscerlo come tale, e di esplorare nell’opera sua gli inestimabili tesori del pensiero e del sentimento cristiano».
Ed effettivamente, se non si possiede un’attrezzatura teologica di base, non è possibile esplorare in pienezza questa cattedrale poetica. Paolo VI, inoltre, inviò a Firenze un’aurea corona d’alloro da incastonare nel «mio bel San Giovanni», il battistero ove Dante era stato battezzato (Inferno XIX, 17), e a tutti i Padri riuniti a Roma per il Concilio Vaticano II volle donare un’edizione artistica della Commedia.
È, perciò, significativo che un’ampia parte iniziale della Lettera di Papa Francesco raccolga le voci dei suoi predecessori e faccia sue le parole nette di Paolo VI: «Non rincresce ricordare che la voce di Dante si alzò sferzante e severa contro più d’un Pontefice Romano, ed ebbe aspre rampogne per istituzioni ecclesiastiche e per persone che della Chiesa furono ministri e rappresentanti». Ma, come si diceva, è indubbia la certezza che «tali fieri suoi atteggiamenti non abbiano mai scosso la sua ferma fede cattolica e la sua filiale affezione alla Chiesa».
Nella scia dei suoi predecessori, lo stesso Papa Francesco intesse il suo canto in onore di colui che ha creato «un poema universale: nella sua immensa larghezza, abbraccia cielo e terra, eternità e tempo, i misteri di Dio e le vicende degli uomini, la dottrina sacra e quella attinta al lume della ragione, i dati dell’esperienza personale e le memorie della storia» (sempre citando Papa Montini).
La Lettera Apostolica si trasforma, così, in una vera e propria mappa essenziale dell’opera del Poeta, partendo dal nucleo germinale della stessa biografia dell’Alighieri evocata in tutte le sue tappe, soprattutto nella «struggente malinconia» dell’esule e pellegrino, lontano dall’amata e detestata Firenze e dagli «scelleratissimi fiorentini». Ma, come suggerisce finemente papa Francesco, questa amara esperienza personale viene trasformata e sublimata «in un paradigma di ogni autentico viaggio in cui l’umanità è chiamata a lasciare quella che Dante definisce “l’aiuola che ci fa tanto feroci” (Paradiso XXII, 151) per giungere a una nuova condizione, segnata dall’armonia, dalla pace, dalla felicità». Un cammino che ha come due stelle di riferimento: «il desiderio, insito nell’animo umano, e il punto di arrivo, la felicità, data dalla visione dell’Amore che è Dio».
Si configura, così, la missione del Poeta che si erge come un profeta di speranza: essa, però, sboccia nel terreno realistico dell’imponente sequenza di miserie e vergogne di cui è lastricata la via della storia. Suggestivo è il rimando all’Epistola XIII a Cangrande della Scala in cui Dante confessa che «il fine del tutto e della parte è rimuovere i viventi in questa vita da uno stato di miseria e condurli a uno stato di felicità». Con questo programma, nota il Papa, egli «si erge a messaggero di una nuova esistenza, a profeta di una nuova umanità che anela alla pace e alla felicità», traendola dal fango infernale degradante per condurla allo sfolgorare della beatitudine celeste. Ed era questa anche la vocazione dei profeti biblici, uomini i cui piedi erano ben piantati nel territorio pietroso e arido della storia ma il cui volto era proteso verso la salvezza promessa da quel Dio di cui erano portavoce.
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Dante è, dunque, il «cantore del desiderio umano», proprio nel senso etimologico del termine che rimanda ai sidera, alle stelle, senza cedere alla tentazione della stanchezza e dello scoraggiamento, come lo ammonisce la sua guida Virgilio: «Ma tu perché ritorni a tanta noia / perché non sali il dilettoso monte / ch’è principio e cagion di tutta gioia?» (Inferno I, 76-78). In questo itinerario sono in azione due potenze efficaci: da un lato, la misericordia di Dio che stende la sua mano liberatrice, e dall’altro, la libertà umana che la afferra, così da essere sottratti al gorgo tenebroso del male.
È interessante notare che Papa Francesco riserva alla dialettica grazia-libertà un’intensa riflessione adottando come emblema lo scomunicato re Manfredi, figlio di Federico II, che sulla soglia della morte, trafitto da due colpi di spada, confessa: «Io mi rendei, / piangendo, a quei che volentier perdona. / Orribil furon li peccati miei; ma la bontà infinità ha sí gran braccia, / che prende ciò che si rivolge a lei» (Purgatorio III, 119-123). Facile è scorgere in filigrana a queste parole la parabola evangelica del «Figlio prodigo».
La meta ultima del percorso della vita umana e del desiderio autentico è la visione suprema di Dio. Tuttavia è significativo che nella contemplazione della purissima trascendenza della Trinità, Dante veda un volto umano: è quello di Cristo, la Parola eterna divina fatta carne nel grembo di Maria. Per questo la «circulazion», la dinamica trinitaria, di «tre giri / di tre colori e d’una contenenza…, / mi parve pinta de la nostra effige» (Paradiso XXXIII, 127-131). Come commenta papa Francesco, «l’essere umano, con la sua carne, può entrare nella realtà divina, simboleggiata dalla rosa dei beati. L’umanità, nella sua concretezza, con i gesti e le parole quotidiane, con la sua intelligenza e i suoi affetti, con il corpo e le emozioni, è assunta in Dio, nel quale trova la felicità vera e la realizzazione piena e ultima, meta di tutto il suo cammino».
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Una bella sorpresa affiora in un capitolo della Lettera simile a un trittico tutto femminile. Salgono sulla ribalta tre donne. La prima ovviamente è Maria, «Vergine Madre, figlia del tuo Figlio», esaltata nel celebre inno del finale canto XXXIII, ma già contemplata su invito di san Bernardo come «la faccia ch’a Cristo / più si somiglia» (Paradiso XXXII, 85-86). La seconda è Beatrice, «l’amore divino che trasfigura l’amore umano», come annota il Pontefice, citando la voce della donna nell’avvio stesso del cammino di ricerca del poeta: «I’ son Beatrice che ti faccio andare; … amor mi mosse, che mi fa parlare» (Inferno II, 70.72).
Tra l’altro, è curioso notare che Dante, contemplando la donna amata, divenuta ormai un simbolo sacro, la interpelli così: «O isplendor di viva luce etterna» (Purgatorio XXXI, 139), espressione che ricalca proprio quella assegnata al Verbo divino incarnato in Maria e che è stata scelta da Papa Francesco per l’avvio della sua Lettera Apostolica. La creatura umana riflette quella «luce etterna» che Dante spesso usa come attributo divino. E, infine, ecco Lucia, santa martire siracusana, che interviene sia agli inizi del viaggio di Dante (Inferno II, 97.100), sia nell’ascesa sulla montagna del Purgatorio (IX, 55), sia nella «candida rosa» paradisiaca (Paradiso XXXIII, 137), sempre intercedendo per il poeta.
Ma non poteva mancare, a suggello della lettura dantesca del Papa, il santo di cui egli porta il nome, Francesco d’Assisi, protagonista del canto XI del Paradiso, figura cara non solo a lui ma anche a Dante, tant’è vero che il Pontefice stabilisce un suggestivo parallelo tra il santo e il Poeta. Giunge, così, il momento dell’appello finale, frutto di un’appassionata e intensa lettura panoramica della Commedia nei suoi temi capitali: per altro, le pagine della Lettera Apostolica sono tutte mirabilmente intarsiate di citazioni così che la voce dominante sembra essere quella dello stesso Dante.
L’invito del Pontefice è limpido: «accogliere la testimonianza» dell’Alighieri che «ci chiede di essere ascoltato, di essere in certo qual modo imitato, di farci suoi compagni di viaggio, perché anche oggi egli vuole mostrarci quale sia l’itinerario verso la felicità, la via retta per vivere pienamente la nostra umanità, superando le selve oscure in cui perdiamo l’orientamento e la dignità». O anche uscendo dalle tante «aiuole» in cui si manifesta la disumanità e la violenza.
L’appello terminale di Papa Francesco si sfrangia, poi, irradiandosi verso diverse destinazioni: alle molteplici culture, alla scuola, perché faciliti l’incontro dei giovani con Dante, alle comunità cristiane, agli artisti, creatori di bellezza, e a tutti coloro che cercano «la vera pace e la vera gioia» mentre avanzano nel «pellegrinaggio della vita e della fede… finché non arriveremo alla meta ultima di tutta l’umanità, ‘l’amor che move il sole e l’altre stelle’», come recita l’ultimo verso di questo poema umano e divino e come si chiude anche la Lettera Apostolica.
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Essa si trasforma in un ritratto luminoso del grande poeta, ma diventa anche un profilo essenziale del suo poema, stimolando così la lettura integrale delle tre Cantiche – Inferno, Purgatorio, Paradiso – dei suoi 100 canti e dei suoi 14.223 versi. Idealmente potremmo, a questo punto, porre come icona finale le due immagini di Dante che si affacciano nella stessa casa ove il Papa accoglie chi lo incontra nelle udienze, il Palazzo Apostolico. In una delle cosiddette «Stanze di Raffaello», quella denominata «della Segnatura», che ospitava la biblioteca privata di Papa Giulio II della Rovere, il celebre pittore di Urbino ha raffigurato due volte Dante.
Nell’affresco denominato La disputa del SS. Sacramento (1509), che in realtà è una sintesi mirabile della Trinità contemplata e adorata dalla Chiesa celeste trionfante e da quella terrena militante, spicca forse il più famoso ritratto dantesco. Raffaello lo ha inserito tra i grandi Dottori della Chiesa e i Teologi, da Ambrogio ad Agostino, da Girolamo a Gregorio Magno, da Tommaso d’Aquino a Bonaventura, fino a Papa Innocenzo III (Lotario dei conti di Segni). Anche il Poeta è stato agli occhi dell’Urbinate un teologo perché ha saputo comunicare la Verità divina attraverso la via pulchritudinis, ossia la bellezza e profondità della sua poesia, aperta a tutti a causa della lingua volgare da lui adottata.
Ma Raffaello non si è accontentato di questa rievocazione dantesca. In quella stessa «Stanza della Segnatura», oltre al «Vero» della teologia trinitaria, è raffigurato proprio il «Bello» dell’arte attraverso l’affresco del Parnaso, il monte greco sacro ad Apollo e alle Muse, dal cui versante orientale scaturiva la fonte Castalia, ispiratrice della poesia. Se nel primo ritratto Dante appariva nel busto a profilo, col volto segaligno e severo, ora è rappresentato a figura intera, sempre col capo cinto di alloro, accanto a Omero e a Virgilio. Queste due immagini diventano la sintesi simbolica della grandezza di Dante Alighieri, teologo e credente fervido, appassionato e indefettibile proprio attraverso la sua suprema arte poetica.
Concludiamo, allora, rivolgendo un invito a tutti, oltre ogni credo o ideologia, perché scoprano, anche attraverso la luminosa sintesi di Papa Francesco, l’importanza di un ritorno a Dante e, quindi, alle radici gloriose della nostra civiltà. È ciò che suggerisce anche un cultore della lingua italiana, autore nel 1837 di un commento alla Divina Commedia, lo scrittore Niccolò Tommaseo: «Leggere Dante è un dovere; rileggerlo un bisogno; gustarlo un gran segno di genio; comprendere con la mente l’immensità di quell’anima è un infallibile presagio di straordinaria grandezza».
Card. GIANFRANCO RAVASI