PAROLA E SILENZIO

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«Tutte le parole sono logore e l’uomo non può più dirle». Folgorante come spesso gli accade, Qohelet/Ecclesiaste pianta nella roccia della storia una spada: l’antico sapiente – che nell’originale ebraico (1,8) usa solo sette termini – sembra ergersi solitario persino nella logorrea contemporanea, mentre scorre attorno a lui il fiume vano, vacuo o lutulento dei viali informatici. Cristo sarà ancor più radicale: «Il vostro parlare sia: Sì, sì, No, no! Il di più viene dal Maligno» (Matteo 5,37). A questa ascesi verbale, attingendo allo scrigno dei Vangeli, conduce il suo lettore Jean-Michel Poffet, biblista svizzero che ha vissuto a lungo a Gerusalemme dirigendo la prestigiosa «École biblique et archéologique française».

         Egli, dunque, spreme dai testi evangelici sette «piccole grandi parole» e attorno ad esse ricama riflessioni semplici ma incisive, convinto comunque – già lo suggeriva Emily Dickinson – che non è vero che una parola una volta detta muoia, perché è proprio allora che comincia a vivere, generando bene o male, amore oppure odio. Si comincia con un vocabolo di matrice ebraica che tutti conoscono, credenti e non, e che i primi ripetono meccanicamente ogni giorno a suggello delle loro preghiere: amen. È il verbo della fede e in filigrana rivela fiducia, solidità, verità, adesione; eppure, come dice lo stereotipo si consuma «in un amen», quasi in un soffio.

         Poi ecco quel «beato!», un aggettivo obsoleto nel linguaggio comune attuale, ma che è inestricabilmente legato a quelle «beatitudini» provocatorie di Cristo («Beati i poveri, i sofferenti, i miti, gli affamati, i misericordiosi, i puri, gli artefici di pace, i perseguitati») che aprono il primo dei cinque discorsi del Vangelo di Matteo (5,3-11) e che ribaltano la graduatoria dei valori della nostra società. Poffet continua con un imperativo: «Vieni!», che Gesù lanciò un giorno ad alcuni pescatori del lago di Tiberiade che stavano tirando a terra le reti, un appello destinato a tramutare totalmente la loro vita. Anzi, si giunge quasi a una sorta di punto zero ricorrendo a un minimale «con», la preposizione dell’amore, tant’è vero che è nel soprannome di Gesù, l’Emmanuele, in ebraico «Dio con noi». Sono ben 3500 le occorrenze bibliche della formula «essere con».

         È la volta, poi, di «oggi», che è sussurrato da Gesù morente al ribelle crocifisso accanto a lui («Oggi sarai con me in paradiso»), un avverbio amato dall’evangelista Luca e che la Lettera agli Ebrei intesserà nel fluire del tempo in modo lampeggiante: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!» (13,8). La finale del suo settenario Poffet la affida a un corale «Alleluja». Ma noi recuperiamo dalla sequenza un altro imperativo che l’autore ha collocato al quarto posto del suo settenario, ed è il severo «Taci!» che risuona due volte, all’inizio della vita pubblica di Cristo come «museruola» per un indemoniato e successivamente durante la tempesta sul lago, da lui urlato alla bufera per placarla.

         C’è, però, un altro silenzio che merita una specifica riflessione ed è ciò che propone un pastore protestante ultranovantenne, il francese Gérard Delteil, in un intenso volumetto dal titolo emblematico Al di là del silenzio, evocando una frase di Edmond Jabès: «Dio è il silenzio che dobbiamo rompere». Sì, perché Dio tace, tant’è vero che il profeta Elia lo scopre in «una voce di sottile silenzio» (1Re 19,12). Egli è, sì, il Lógos, la Parola, ma è anche un «mistero», e questo vocabolo ha alla base il verbo greco mýein, «tacere». Non per nulla ciò che scopre alla fine Giobbe è il transito a un altro incontro con Dio, la visione: «Io ti conoscevo per sentito dire, ora i miei occhi ti vedono» (42,5). È l’esperienza mistica che è coniata su un termine che ha la stessa radice di «mistero».

         Prima, però, Giobbe sperimenta non il silenzio ma il mutismo di Dio, simile a un imperatore impassibile relegato nel suo cielo dorato. È quell’indifferenza che ha sconcertato e scandalizzato molti, anche teologi, di fronte alla shoah, o davanti ai cataclismi della natura. Di questi volti diversi del silenzio umano e divino, che può essere promessa e ferita, epifania e tenebra, Delteil descrive i vari lineamenti in pagine di grande fragranza esistenziale e spirituale. Esplorato tutto l’«enigma del silenzio», si incrocia appunto il crudo profilo del male che fa affiorare sulle labbra della vittima il grido biblico a Dio: «Perché nascondi il tuo volto?».

         Ma si inseguono anche altri registri inattesi come quelli della presenza nell’assenza, del silenzio grembo della Parola, dell’eros del tacere (due innamorati veri, esaurite le parole, si guardano negli occhi senza nulla dire, eppure quel silenzio è molto più eloquente delle parole), del «credere malgrado», anzi, della fede soprattutto durante il vuoto della voce divina. Un capitolo finale fondamentale rimane, però, quello sul «ritirarsi di Dio e la responsabilità umana» della libertà: ad essa, artefice di violenza e di sofferenze atroci nei confronti del prossimo, più che a Dio si dovrebbero rivolgere spesso tanti interrogativi laceranti sul male.

GIANFRANCO RAVASI

Jean-Michel Poffet, Piccole grandi parole, Qiqajon, pagg. 132, € 12,00.

Gérard Delteil, Al di là del silenzio, Qiqajon, pagg. 188, € 18,00.