Con buona pace dei calendari maya il sipario si è aperto ancora su un nuovo anno, in mezzo al solito gracidare vano di alcuni politici vecchi e nuovi e alle ansie reali di tante famiglie. Al loro scoraggiamento vorrei indirizzare poche righe delle molte, spesso folgoranti, che colmano le pagine del Diario di Etty Hillesum, appena riedito da Adelphi e che proprio in questi giorni ho riletto con emozione intatta. Mentre Etty (Ester) scriveva, fuori c’era il filo spinato, dai comignoli dei forni usciva un fumo denso, rimbombavano le urla degli aguzzini e già i prigionieri sembravano emettere un odore di morte. Era il 1943 ad Auschwitz.

Questa giovane donna ebrea di 29 anni, che di lì a pochi mesi sarebbe stata eliminata, annotava queste righe: «Ma cosa credete, che non veda il filo spinato, i forni crematori, il dominio della morte? Sì, ma vedo anche uno spicchio di cielo, e in questo spicchio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e bellezza». Aggrapparsi a quel lembo di azzurro, cioè di speranza, non è una sorta di narcosi illusoria, è una segreta sorgente di energia. Certo, lo diceva già Charles Péguy, il poeta francese che alla speranza aveva dedicato nel 1911 un intero poemetto: «È sperare la cosa difficile, / a voce bassa e vergognosamente. / E la cosa facile è disperare / ed è la grande tentazione».

In questa luce la speranza è una virtù di lotta. Non per nulla san Paolo nelle sue lettere privilegia – rispetto al vocabolo comune greco per designarla elpís – il più forte hypomoné che letteralmente significa recare sulle spalle un carico pesante e quindi avere costanza, perseveranza, impegno. Se molti politici inalberano con arroganza il vessillo della corruzione, dello spreco, dell’interesse privato, il cittadino serio sceglie la via della legalità, anche nelle piccole cose, a partire dalla richiesta dello scontrino fiscale, del rispetto delle regole stradali, del comportamento civico e così via.

La speranza in una società diversa si batte perché si abbassi il coefficiente di diseguaglianza che nel nostro paese vede persone e famiglie opulente che detengono fette enormi della ricchezza nazionale, spesso travalicando ogni giustizia sociale e fiscale e ignorando ogni senso di solidarietà, intoccabili nei loro privilegi. Su questo tema vorrei suggerire ai nostri lettori di cercare in una Bibbia (che spero sia nelle loro case, almeno come “grande codice” della nostra cultura occidentale) il testo del profeta Amos che già nell’VIII sec. a.C. scriveva moniti veementi validi anche per oggi.

         L’illegalità, l’evasione fiscale, la corruzione, l’assenza di solidarietà sono, infatti, vere e proprie colpe morali e non solo reati giuridici. Rimanere indifferenti di fronte al degrado civile è connivenza etica, come è un misfatto – e questo è più evidente – la noncuranza per la povertà, la disoccupazione, l’indigenza di tanti, se è vero che quattro famiglie su dieci faticano a giungere decorosamente a fine mese. Pensiamo, poi, a quella folla di persone isolate, ignorate perché vecchie, malate, straniere, sulle quali le festività passano più come incubo che come evento lieto. Torniamo ancora a quel “grande codice”, alla Bibbia, nella quale leggiamo questo appello rivolto alla comunità ebraica di allora: «Se vi sarà in mezzo a te un fratello bisognoso in una delle tue città, non indurire il tuo cuore e non chiudere la tua mano» (Deuteronomio 15,7).

Tempo fa, quando tenevo su Avvenire la rubrica quotidiana “Mattutino”, un lettore mi inviò un “testo di ignoto” che aveva letto sulla porta di un ufficio pubblico. Lo vorrei riproporre ora per ricordarci che sperare non significa alla fine rassegnarsi ma impegnarsi. «Questa è la storia di quattro persone chiamate Ognuno, Qualcuno, Ciascuno, Nessuno. C’era un lavoro da fare e Ognuno era sicuro che Qualcuno l’avrebbe fatto. Ciascuno avrebbe potuto farlo, ma Nessuno lo fece. Finì che Ciascuno incolpò Qualcuno perché Nessuno fece ciò che Ognuno avrebbe potuto fare».