«Fra due parole bisogna scegliere sempre la minore (moindre)»: mi sembra significativa questa frase del Tel quel di Paul Valéry, soprattutto nei nostri giorni ove domina l’urlato e l’eccessivo. E’ anche per questo non sono riuscito a capire l’esagitazione di certi commenti attorno alla fine di Lucio Magri, declamata persino come «un segno di civiltà della vicina Svizzera» dai soliti che fra le parole scelgono sempre la più sguaiata.

         E’ così che ho evitato di rispondere ai non pochi giornalisti che insistevano per un mio giudizio attorno a questa vicenda: amara e drammatica non solo per il suo esito terminale ma anche per il precedente lungo alone di solitudine, causato dalla perdita della donna amata, e di depressione, alone oscuro che aveva accompagnato quell’estremo viaggio per “acquistare” la morte. Sono, invece, tante, complesse, delicate – e quindi “minori” – le parole che vorrei scrivere attorno al tema enorme della vita e della morte, parole non contenibili nelle quattromila battute di questa pagina. Farò, allora, solo due riflessioni “minori” e generali sulla vita.

         Essa non è prodotta dal soggetto, è un “dato” ricevuto, un “dono” che ha in sé una sua natura prefissata, una sua struttura costitutiva e dinamica. E’ certamente un bene “disponibile” in non pochi suoi aspetti, anche perché è posto tra le mani di una creatura libera. Ma contemporaneamente ha una dimensione “indisponibile” nella sua struttura radicale fatta di nascita-crescita-morte, tant’è vero che è ormai comune la reazione a ogni tentazione eugenetica o a ogni cancellazione legalizzata (ad esempio, la pena di morte). Il principio decalogico del “Non uccidere” è infatti connaturale, e la religione può solo connotarlo di valori aggiunti. C’è, quindi, un essere in sé, un oggettivo autoporsi della vita umana che la rende non del tutto immanente alla libertà del singolo.

Per il credente questo aspetto ad extra è riferito al Creatore. Per il “laico” sarà, invece, la natura che ci eccede, ci precede e segue; entro di essa possiamo agire e intervenire ma senza ricondurla totalmente alla soggettività dell’arbitrio individuale. La nostra cultura, detta appunto “amortale” o “postmortale”, ha perso invece ogni rimando a questo trascendere dell’esistere, all’«altra faccia della vita rispetto a quella rivolta a noi», come diceva Rilke, e si è affidata solo all’immediato, alla tecnica che sbrigativamente giudica e risolve vita e morte. Albert Einstein era, invece, convinto che «essere consci del lato misterioso e indisponibile della vita è il più bel sentimento che ci sia dato provare: sta alla radice di ogni arte e di ogni scienza vera».

A questa riflessione primaria ne dev’essere, poi, aggiunta un’altra ugualmente fondamentale: a ogni vita è insita una dimensione sociale, per cui l’individualismo esasperato è in realtà una malattia della persona. Essa, infatti, è di sua natura aperta all’altro e, quindi, coinvolta dall’altro. Indimenticabili sono i versi del grande John Donne: «Ogni morte d’uomo mi diminuisce, perché partecipo dell’umanità; e dunque non mandare mai a chiedere per chi suona la campana: suona per te». Nessuno vive solo per se stesso e nessuno muore solo per sé e da sé. Non si appartiene mai esclusivamente a se stessi; la vita, proprio per il reticolo di relazioni che intesse e che la costituiscono, non è mai solo e totalmente mia, retta da una mia legge esclusiva e gestita con norme del tutto soggettive. La libertà del singolo è un valore altissimo e radicale, ma si esercita in equilibrio con la relazione nei confronti dell’altro.

Vita e morte, dunque, non sono realtà facilmente restringibili in uno schema semplificato, non si riducono per l’uomo e la donna a un mero evento biologico o a un puro accadimento individuale o psicologico. Quanto più ci si inoltra in esse, tanto più ci si accorge della loro qualità “simbolica”, capace di “mettere insieme” (syn-ballein) dimensioni differenti che non possono essere subito schematizzate secondo il ritmo binario della tecnica. L’agnostico russo Vladimir Nabokov in Fuoco fatuo (1962) alla fine riconosceva che «la vita umana è una serie di note a piè di pagina di un immenso e oscuro capolavoro».