S’era fatto dare una moneta imperiale e ai suoi interlocutori aveva chiesto: «Di chi è l’immagine e l’iscrizione?». «Di Cesare», gli avevano risposto un po’ sorpresi per l’ovvietà di quella domanda. E Gesù lapidariamente aveva concluso con quel detto che tutti, credenti o no, hanno almeno una volta citato: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio». Questa frase è in realtà meno ovvia perché introduce implicitamente un’altra “moneta”: l’uditorio ebraico intuiva, infatti, in quelle parole anche un rimando all’asserto biblico sull’uomo “immagine” di Dio.

Le cose, allora, diventano un po’ più complesse. Certo, il riferimento a Cesare e ai suoi diritti esorcizza ogni cesaropapismo e ogni teocrazia (la shari‘a musulmana, che identifica il codice di diritto canonico col codice civile o penale, dovrebbe essere estranea al cristianesimo). Alla politica, all’economia, alla società civica, simboleggiata nella moneta imperiale, viene riconosciuta una sua autonomia, un proprio campo di esercizio, una sua capacità e indipendenza normativa.

Tuttavia, l’uomo e la donna non si esauriscono in queste coordinate, rivelano un profilo ulteriore, sono dotati di altre qualità come la libertà, la relazione interpersonale, l’amore, la solidarietà, la giustizia, la vita che non possono essere né esaurite né meramente funzionalizzate all’interesse politico-finanziario e piegati alle esigenze delle strategie di un sistema o del mercato. A prima vista, questa linea di demarcazione ideale potrebbe essere sottoscritta da tutti, anche da chi non attribuisce a quei valori una caratura trascendente.

In realtà, la declinazione storica e operativa di questa distinzione si aggroviglia incessantemente proprio perché entrambi gli attori, Cesare e Dio, ossia Stato e Chiesa, si interessano di un soggetto unico e comune, la società e la persona umana, e quindi i contrappunti, i conflitti, gli sconfinamenti sono sempre in agguato. Da un lato, si può configurare la tentazione teocratica di stendere il manto sacrale ideale sull’intera polis e, dato che il soggetto prevalente in questa operazione è il clero, si è soliti parlare di “clericalismo”.

D’altro lato, però, si può delineare una spinta opposta, quella che respinge progressivamente ogni alternativa o valutazione critica rispetto al potere politico, espellendola radicalmente dalla polis per relegarla nel ristretto spazio templare, tra le volute degli incensi e i melismi dei canti liturgici. È quello che viene definito come “laicismo” (laddove il termine originariamente religioso di “laico”, come membro non sacerdotale della Chiesa, acquista un significato alternativo alla religione). Il motto ormai classico della «libera Chiesa in libero Stato», a prima vista corretta riformulazione del detto evangelico, in realtà sottintendeva il proposito di confinare il diritto di sussistenza della Chiesa nella sola coscienza dell’individuo e nel perimetro sacrale del culto.     

«Custodire castamente la propria frontiera», come suggeriva il filosofo Schelling, è quindi molto arduo, e forse non è neppure coerente con l’unitarietà complessa della persona. Permane il rischio di prevaricazione da parte di una politica e di un’economia che si arrogano competenze esclusive, o di una religione che assume forme di integralismo. Dato che chi scrive in questa rubrica è considerato “di diverso parere”, mi permetterò di difendere in sintesi e in linea di principio una funzione della Chiesa, quella di uscire dal tempio e di entrare nell’agorà come coscienza critica che ribadisca e tuteli senza imbarazzi alcuni valori personali e sociali del bene comune, della moralità, della vita, della verità, della giustizia, della solidarietà, della sessualità, nella consapevolezza che l’uomo e la donna sono dotati di una dimensione che trascende il pur legittimo ordinamento economico-politico, retto da norme proprie e autonome. Forse ad altri credenti che interverranno dopo di me in questa rubrica è aperta la possibilità di entrare nei meriti specifici – spesso “incandescenti” – di questo confronto tematico