FIGLI ED EREDI
Se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi. Ora, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio.
E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo. (Romani 8, 11.14-17)
A questa domenica pasquale abbiamo voluto assegnare, per la nostra riflessione paolina, un paragrafo di quel capolavoro che è la Lettera ai Romani, còlta qui nel suo cuore, il capitolo 8. Dopo la lunga e fosca rappresentazione dell’uomo peccatore, appare in quella pagina la figura luminosa del redento. Il grande protagonista di questa trasformazione è lo Spirito di Dio che attraversa e vivifica il corpo morto di Gesù facendolo risorgere e che penetra e trasforma anche i nostri corpi mortali, appesantiti dal peccato.
Il risultato di questo passaggio vivificante in noi è sorprendente: da schiavi diventiamo figli, dalla paura del giudizio divino passiamo alla speranza della gloria, da estranei e ostili a Dio veniamo costituiti membri della stessa famiglia divina, assisi accanto al Figlio davanti al Padre. Certo, l’Apostolo sottolinea che la nostra è una filiazione adottiva, ma non lo fa per sminuirne la realtà riducendola a una semplice finzione giuridica. Egli vuole, invece, indicare che si tratta di un bellissimo e libero dono divino; è il frutto di un atto gratuito di Dio, mentre per il Cristo si trattava di uno statuto “naturale”.
In questa linea si riesce, allora, a comprendere anche come questa nostra filiazione non abbia niente da spartire coi miti panteistici di una certa filosofia antica, né con la concezione di alcune monarchie che vedevano nel re un essere generato dalla stessa divinità (si pensi ai faraoni o al culto imperiale romano). Nel cristianesimo Dio resta Dio e l’uomo resta uomo. Eppure questa nostra trasformazione in figli non è solo simbolica, tant’è vero che essa comporta due esiti significativi.
Il primo risultato è nel mutamento della nostra relazione con Dio: il nostro rapporto con lui si fa diretto, libero, spontaneo, confidenziale. Infatti, possiamo interpellarlo con la stessa immediatezza con cui il Figlio suo Gesù lo chiamava, cioè in aramaico abba’, “babbo”, in un dialogo unico e originale. È il medesimo Spirito divino che è in Cristo ed è entrato anche in noi a spingerci a questa confidenza che conosce la tenerezza e che rende la nostra preghiera non una supplica atterrita davanti a un Essere simile a «un arruffio di fili di cui non si vede il bandolo» (come diceva un’antica invocazione sumerica), ma un libero e spontaneo dialogo con un padre amoroso.
Il secondo esito della nostra filiazione adottiva – continua san Paolo – è la condivisione dell’eredità col Figlio Gesù: «eredi di Dio, coeredi di Cristo». È il grande destino di gloria, di comunione piena, di eternità che ci attende, dopo però che noi abbiamo condiviso anche la via oscura della sofferenza e della morte come aveva fatto lo stesso Figlio. Infatti, subito dopo, l’Apostolo aggiungerà: potremo «partecipare alla sua gloria, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze» (8,17).