«GUAI A ME SE NON ANNUNCIO IL VANGELO!»

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Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo!...

Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnarne il maggior numero. Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno. Ma tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe anch’io. (1 Corinzi 9, 16.19.22-23)

            C’è un filo costante di polemica che percorre le pagine della Prima Lettera ai Corinzi. San Paolo non contesta solo il loro comportamento morale ed ecclesiale, ma si sente a sua volta contestato e prende spesso, anche rudemente, la sua difesa non esitando a gridare loro: «Che cosa volete? Che venga a voi col bastone o con amore e spirito di dolcezza?» (4, 21). Nel brano che la liturgia di questa domenica propone, l’Apostolo reagisce a chi aveva criticato la sua missione di evangelizzatore, mostrando che essa nasce non da una propria iniziativa (in greco ekón), ma da una chiamata esterna (in greco ákon, con un evidente gioco di parole rispetto al vocabolo precedente), da una vocazione divina.

            Dal testo del lezionario odierno (9,16.19.22-23) noi abbiamo ritagliato pochi versetti. Essi si aprono con la sottolineatura forte e tutta “paolina” del primato della grazia che irrompe nella vita dell’Apostolo e lo spinge ad annunciare il Vangelo, quasi fosse una “necessità”, un turbine che ti coinvolge, ti sconvolge e ti travolge. Perciò, «guai a me se non annuncio il Vangelo!». È facile intuire in queste poche parole l’eco dell’esperienza traumatica vissuta dall’Apostolo sulla via di Damasco, quando egli fu “ghermito”, afferrato, impugnato da Cristo che ne fece il suo araldo (Filippesi 3, 12).

            Quell’irruzione ha creato un nuovo comportamento nell’annunciatore. Egli, che era un altezzoso tutore della sua religiosità “ereditaria”, si apre a tutti, mettendosi spalla a spalla di ogni persona pur di poterla condurre alla luce del Vangelo. Eccolo, allora, lui libero farsi servo di tutti; eccolo ridiventare giudeo per parlare e convincere i giudei; eccolo accostarsi ai pagani per condurli a Cristo; eccolo diventare debole per sollevare i deboli e redimere la loro miseria. Folgorante è la frase riassuntiva che Paolo adotta quasi fosse il motto ideale della sua opera missionaria: «Mi sono fatto tutto per tutti».

            In questo paragrafo della Lettera abbiamo, quindi, una sorta di autoritratto dell’Apostolo che, a sua volta, si trasforma nel ritratto del missionario, del testimone di Cristo, del vero discepolo. Alla radice c’è una chiamata libera e gratuita, che ha in sé una straordinaria efficacia, al punto tale da stravolgerti la vita. Il percorso che si apre davanti all’ “inviato” da Dio (tale è il valore del termine greco apóstolos) è quello di entrare nel mondo e di essere come un lievito nella storia, penetrando in essa per fecondarla e trasformarla. Ben s’adatta alla chiamata cristiana la definizione che della vocazione aveva offerto lo scrittore russo Boris Pasternak nel celebre romanzo Il dottor Živago: «essa è un’ansia inestinguibile».