IL LEONE, L’ORSO, IL SERPENTE
Ecco, un uomo fugge davanti al leone e s’imbatte in un orso. Entra in casa, appoggia la mano sul muro e un serpente lo morde. (Amos 5,19)
Sul sentiero che si distende nella steppa c’è un uomo ansimante che sta cercando di seminare un leone che da lontano l’ha puntato. Riesce a svoltare su una pista nascosta, ma ecco pararglisi innanzi un orso minaccioso. C’è, però, una via di uscita: poco più in là egli nota un casolare. Col respiro ormai quasi al collasso, quell’uomo lo raggiunge, ne varca la soglia, spranga la porta e, per riprendere fiato, s’appoggia con una mano alla parete: ecco, però, guizzante, una vipera gli morsica quella mano e per lui è la fine.
Amos, profeta proveniente da un villaggio della steppa a sud di Betlemme, ama costellare il suo libro profetico di immagini naturalistiche, che rispecchiano le vicende dei contadini e dei pastori. Lo fa anche con questo straordinario quadretto che, in realtà, sembra essere la sceneggiatura di un filmato: in ebraico gli bastano solo 15 parole (compresa una preposizione) per rendere in modo così pittoresco un’esperienza tragicamente inesorabile. Ovviamente è spontanea una domanda: qual è il significato di questa parabola, presa dal vivo di un evento drammatico?
La risposta è nelle righe precedenti, quando il profeta introduce quello che egli chiama con una formula ebraica, jôm-Jhwh, cioè “il giorno del Signore”, in pratica il Dies irae della tradizione cristiana. Che cosa sia in senso stretto è però da precisare: si tratta dell’ingresso, prima segreto ma alla fine palese ed esplicito, del Dio giudice giusto nella storia umana ingiusta e scandalosa. È la grande attesa delle vittime che, come suggerisce il Salmista, sospirano il “giorno” in cui potranno esclamare: «C’è un premio per il giusto, c’è un Dio che fa giustizia sulla terra!» (58, 12).
Amos nelle ultime sue pagine (i capitoli 7-9) affiderà a cinque “visioni” – che sono altrettante “sceneggiature” – la descrizione di questa severa irruzione di Dio nella storia. Ora è uno stormo di cavallette che piomba su un campo verdeggiante, radendolo al suolo; ora è, invece, la siccità che inaridisce i terreni; un’altra volta è il lavoro di un costruttore che misura col filo a piombo una parete storta, decidendo di demolirla; ecco poi un cesto di fichi maturi, segno che l’estate sta per concludersi e l’inverno è alle porte; infine, ecco una catastrofe militare col suo corteo di distruzione e morte.
Sì, la voce dei profeti non è fatta per blandire, ma per inquietare le coscienze intorpidite e superficiali, è uno squillo di tromba che lacera la consuetudine e l’indifferenza morale. Scriveva una poetessa ebrea tedesca, Nelly Sachs (1891-1970), in una sua ballata dedicata proprio a loro: «Se i profeti irrompessero per le porte della notte, / incidendo ferite nei campi della consuetudine, / se i profeti irrompessero per le porte della notte, / cercando un orecchio come patria, / orecchio degli uomini ostruito di ortiche, / sapresti ascoltare?».