IL RIPOSO DELL’ANIMA
Venite a me, voi tutti affaticati e oppressi, e io vi darò riposo…Imparate da me, mite e umile di cuore e troverete riposo alle vostre anime. (Matteo 11, 28-29)
Uno dei maggiori biblisti del Novecento, il domenicano Marie-Joseph Lagrange, aveva definito il piccolo brano che si legge nei versetti 25-30 del capitolo 11 di Matteo «la perla di grande valore» di quel Vangelo. Noi non l’abbiamo citato se non in un minuscolo frammento, ma suggeriamo ai nostri lettori di prendere in mano una Bibbia, di cercare il testo nella sua integralità e di farlo lentamente risuonare nel loro spirito.
È una delle rare preghiere esplicite di Gesù: anche se spesso si ricorda che egli si ritirava in solitudine a pregare il Padre, non sono rese note le sue parole oranti. Questa è una berakah, in ebraico una “benedizione” (comincia, infatti, così: «Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra»), cioè un inno di lode, di gratitudine e di gioia che sale a Dio dal cuore del Figlio, ma anche di tutti i figli “adottivi” come siamo noi, secondo l’insegnamento di san Paolo che ci invitava a invocare Dio – sulla scia del “Padre nostro” – come abba’, termine familiare aramaico con cui il bambino chiamava il suo “papà”.
Gesù presenta qui il suo “cuore” che, nel linguaggio biblico, designa l’interiorità profonda e, in questo autoritratto, brillano quei due aggettivi, «mite e umile». Non per nulla, prima, si rappresenta idealmente la folla degli «affaticati e oppressi» che accorrevano a Cristo, il quale li abbraccia e li considera i veri interlocutori e amici. Sappiamo, infatti, che attorno a lui, durante la sua esistenza terrena, s’erano accalcati sempre malati, emarginati, prostitute. Una curiosità: il 47% del Vangelo di Marco, escludendo la narrazione della morte e risurrezione, è occupato dai racconti dei miracoli di Cristo che erano guarigioni di sofferenti.
Labbra e mani di Gesù sono state riservate a parole e ad atti di amore e tenerezza per i colpiti da ogni genere di male. In questo gioiello letterario, che è la preghiera a cui ci riferiamo, anche l’impegno di conversione e di fede acquista una tonalità dolce, serena e gioiosa. Infatti, Cristo afferma che il suo «giogo è soave e il suo carico leggero» (11,30). L’immagine che egli adotta, quella del “giogo”, a prima vista può sembrare antitetica, evocando un basto pesante e costrittivo da portare. In realtà, Gesù allude a un simbolo comune nella tradizione giudaica per descrivere l’obbedienza alla Torah, ossia alla legge biblica.
Egli lo riprende e lo trasfigura: il cristianesimo è, sì, un impegno e non un gioco di società o una teoria astratta; ma esso deve fiorire dal cuore perché è un messaggio permeato di dolcezza, di lievità, di adesione gioiosa, libera e sincera. Confessava lo scrittore cattolico francese François Mauriac nella sua Vita di Gesù (1936): «Preferisco al volto del Cristo-re, del Messia trionfante, l’umile figura torturata che nella locanda di Emmaus i pellegrini riconobbero nella frazione del pane: il fratello nostro coperto di ferite, il nostro Dio».