INNALZATO DA TERRA

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Quando sarò innalzato da terra, tutti attirerò a me!   (Giovanni  12,32)

 

         In una delle sue opere più note, le Lettere di Nicodemo (1951), lo scrittore polacco Jan Dobraczynski osservava: «Ci sono misteri nei quali bisogna avere il coraggio di gettarsi, per toccare il fondo, come ci gettiamo nell’acqua, certi che essa si aprirà sotto di noi. Non hai mai pensato che ci siano cose alle quali bisogna prima credere per poterle capire?». Questa considerazione potrebbe significativamente essere applicata al mistero pasquale. Esso, infatti, ha una dimensione storica, scandita dal sepolcro vuoto, dai segni dell’assenza, dalla testimonianza delle donne che avevano conosciuto Gesù.

         Ma ha anche un aspetto profondo che appartiene al divino, al mistero, al trascendente. È proprio per descrivere questo profilo che, nel Nuovo Testamento, la Pasqua di Cristo è espressa con linguaggi e realtà diverse. Così, accanto alla “risurrezione”, che domina in molte pagine evangeliche, c’è anche la rappresentazione che il Gesù di Giovanni (l’idea sarà ripresa pure da san Paolo) ci offre nella potente frase che oggi proponiamo.

         Davanti a noi sta la croce di Cristo, “innalzata” su quel colle di Gerusalemme detto Golgota (ossia “cranio” in aramaico, donde il latino Calvario). Lassù non c’è uno dei tanti condannati a morte schiavi o ribelli. C’è il Figlio di Dio, ed è per questo che quel legno diventa un vessillo levato tra i popoli, capace di attirare a sé l’intera umanità. Su quella croce si compie già la risurrezione, lo svelamento del mistero: la morte è vinta e il Crocifisso è già il Risorto che irradia della sua gloria e della sua liberazione l’orizzonte cupo dell’umanità peccatrice e mortale.

         Questa presentazione del Cristo “innalzato” nella vita perenne della sua divinità, capace di avvolgere di luce l’intera sequenza dei secoli e tutti gli spazi del mondo, è costantemente ribadita da Gesù nel quarto Vangelo, a partire dalla notte in cui aveva incontrato Nicodemo, figura eminente del giudaismo di allora, al quale aveva confidato: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (3, 14-15). E in un’altra occasione, in pieno giorno, durante la festa autunnale delle Capanne, Gesù aveva ribadito: «Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono» (8, 28). Ora, è noto che la formula “Io Sono” è il titolo con cui il Dio dell’esodo si presenta a Mosè ed è, quindi, l’affermazione della divinità di Cristo risplendente nella Pasqua.

         Ecco, allora, come suggeriva Dobraczynski, la necessità di contemplare nella fede quel particolare trono di gloria che è la croce, per riuscire a comprendere che in esso si manifesta il Salvatore del mondo che «tutti attira a sé» per avvolgerli con la sua luce. Il suo “innalzamento” sulla croce, a prima vista “scandalo” come dirà san Paolo, si rivela come l’“esaltazione” gloriosa del Risorto.