TRE EPISTOLARI

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In tutti i convegni di archivistica di questi ultimi anni viene dibattuto un tema particolare, quello della conservazione della corrispondenza per email. La fragilità e la mutevolezza del supporto elettronico, l’evidente labilità dei fogli stampati, la sciatteria e la moltiplicazione esponenziale dei contatti rendono problematica la conservazione di uno dei fondi capitali degli archivi storici, ossia i carteggi tra personalità più o meno rilevanti. Già la terminologia che definisce questo genere letterario è significativa col suo rimando alla «carta», così come lo è il vocabolo «lettera» che ha generato la «letteratura», il «letterato» e persino il valore «letterale» di un testo. Per non parlare poi del greco gramma che – come è ovvio nella derivazione dal verbo graphein – suppone una «scrittura» in senso stretto, mentre «epistolario» allude al tramite, cioè l’invio, dal verbo epistéllein, che ha in parallelo l’apóstolos, evocazione di una trasmissione personale oltre che spaziale.

         Questo divertissement etimologico vuole solo inquadrare una trilogia, apparsa in contemporanea, nella quale sono protagonisti «carteggi» in senso stretto, capaci di trasformarsi in veri e propri dialoghi o trattazioni articolate, tant’è vero che nelle pubblicazioni che li offrono si ricorre ad apparati di note, commenti e introduzioni. Proprio per la loro ricchezza, ben lontana dai miseri messaggini informatici attuali, noi possiamo ora adottare solo una presentazione allusiva, lasciando al lettore interessato di alzare il velo su questi confronti spesso intimi e profondi, più efficaci di incontri diretti. Nel primo caso che suggeriamo – quello tra Walter Benjamin, figura affascinante di studioso berlinese ebreo, sprizzante intuizioni e analisi folgoranti, tragicamente morto suicida al confine franco-spagnolo nel 1940 a 48 anni, e il grande maestro della Qabbalah e della mistica ebraica Gershom Scholem che gli sopravviverà a lungo (morirà nel 1982 a 85 anni in Israele) – il dialogo fu solo a distanza perché i due si incrociarono soltanto una volta a Parigi nel 1938.

         Eppure il loro colloquio, come si evince da questa raccolta di 138 scritti, ampiamente inquadrati e commentati dallo stesso Scholem (e già presentati in queste pagine con un taglio suggestivo da Giulio Busi), raggiunge punte alte di riflessione, si inabissa anche in reciproche opposizioni, si intesse persino di malintesi e di distacchi, ma ha come esito l’affermazione paradossale di Benjamin che, quasi a suggello ideale degli otto anni di relazione epistolare (che copre l’ultima fase della sua vita), confessava: «Tra Gerhard e me le cose stanno così: ci siamo persuasi a vicenda». Difficile è anche solo elencare i contenuti di un connubio tra due menti fervide fino all’effervescenza, perché lo specchio tematico abbraccia una straordinaria policromia di soggetti che vanno dalle letture alle ricerche, dagli sprazzi filosofici a pellegrinaggi più o meno lineari nel mistero della grammatica mistica, dai fremiti del terrore seminato dal nazismo alla comune attrazione per quella sorta di talismano indecifrabile che è l’opera di Kafka.

         Tanto altro sarebbe da scoprire in quelle righe che, anche stilisticamente, sono mille miglia remote rispetto all’attuale scheletrica corrispondenza digitale. Basti solo questo incipit, scelto a caso da una lettera del 1939 di Benjamin: «Mentre il carico dei miei pensieri giace, in attesa di risposta, all’àncora presso di te, questo nuovo battello parte pescando ben al di sotto della linea di galleggiamento per il sovraccarico di ciò che trasporta – tutto il peso del mio cuore». Il passaggio al secondo carteggio, cronologicamente più ampio (1933-1983) ma più rado ed essenziale, è agevole perché sulle pagine del nostro supplemento domenicale Raffaele Liucci ne ha parlato in modo acuto e incisivo. Ne voglio fare cenno anch’io per ragioni estrinseche legate ai due personaggi, comuni per patria, prossimi per amicizia e sideralmente distinti per Weltanschauung.

         Evidente è la «segreta complicità» tra uno dei massimi storici delle religioni Mircea Eliade, nativo di Bucarest nel 1907, allievo di Jung, emigrato in Francia e poi negli Stati Uniti ove morirà nel 1986, e lo scrittore ateo Emil M. Cioran, figlio di un prete ortodosso rumeno, nato nel 1911 e morto nel 1995 in quella Parigi che l’aveva accolto e ove si era rassegnato a vivere distillando le gocce sempre più scure del suo pessimismo. Dicevo di un’evocazione «estrinseca» a causa del mio personale coinvolgimento con questi due autori per motivi omogenei eppur antitetici. Da un lato, infatti, c’è l’ovvio influsso esercitato da Eliade nel campo della teologia con la sua ermeneutica del sacro e della religiosità. D’altro lato, c’è il rilievo che riveste Cioran nel dialogo tra credenti e non credenti.

         Come appare in filigrana ad alcune lettere – al di là delle fitte riflessioni politiche, degli scambi intellettuali, delle aspre critiche allo Zeitgeist e a una società deludente, andando oltre le memorie comuni di un passato per nulla estinto e neppure stinto – emerge l’interesse di Cioran per l’orizzonte in cui naviga l’amico. Non si deve dimenticare, infatti, che egli, pur professandosi della «razza degli atei», continuava a «spiare Dio» per coglierlo in fallo, così come rimaneva catturato dal fenomeno della mistica e della musica nella quale Dio aveva lasciato una traccia attraverso Bach. Non per nulla, oltre all’amico filosofo Noica, Cioran intesseva col giovane teologo e musicologo G. Bălan un altro epistolario, tradotto in italiano nel 2017, come col noto teologo rumeno P. Ṭuṭea (in italiano 2019).

         Il nostro trittico si chiude con le lettere che si sono scambiate due figure originali nel panorama culturale a noi più vicino. La lettura di queste 223 missive svela aspetti forse minori ma non per questo meno sorprendenti di un sacerdote pavese, Cesare Angelini (1887-1976), per decenni rettore del prestigioso Collegio universitario «Borromeo», capace di fondere in un impasto armonico mirabile letteratura, spiritualità, arte, fermenti sociali, razionalità e passione, e soprattutto «ironica letizia». Lo scorso febbraio pochi telespettatori sapevano che quell’Angelini citato da Benigni nel suo show sanremese sul biblico Cantico dei cantici era proprio questo personaggio (il suo breve e delizioso commento era del 1963). L’altro interlocutore, Paolo De Benedetti (1927-2016), è stato un riferimento originale e creativo della cultura italiana religiosa e laica per quasi mezzo secolo, anche con la sua fisionomia di giudeo-cristiano e con la sua insaziabile curiositas intellettuale.

         Di lui altre volte ho scritto su queste pagine, anche a causa di una conoscenza e stima diretta, nata nella comune attività accademica, e sviluppata attraverso la costante lettura dei suoi scritti sempre folgoranti, sia quando si attardavano nei meandri delle Scritture o del Talmud, sia quando ricamavano «limerick» o bagliori poetici, sia quando i suoi discorsi spettinavano gli stereotipi anche religiosi. Affascinante è la lettura di questo carteggio che oscilla tra le valli della quotidianità e le alture dell’intelligenza, che inanella informazioni inattese coi fremiti dell’amicizia, che incrocia l’asse orizzontale della cultura con quello verticale della spiritualità.

         Tutto all’insegna di una sintonia profonda fecondata dalla diversità dei percorsi, come si intuisce anche nelle appendici riservate alle reciproche prefazioni o ritratti, e come potrebbe essere attestato da queste righe calorose di De Benedetti scelte a caso tra le tante possibili: «Solo un rigo per dirle che, nella vacuità di queste giornate di lavoro, l’unica dolcezza è il pensiero delle giornate passate insieme e di quelle che ancora passeremo». Oppure da Angelini: «Lei sa che il suo arrivo in Collegio (Borromeo) per me è sempre una benedizione. Mi pare di avere tante cose da dirle, o forse, invece, da sentire da lei».

GIANFRANCO RAVASI

Walter Benjamin – Gershom Scholem, Archivio e camera oscura. Carteggio 1932-1940, Adelphi, Milano, pagg. 463, € 26,00.

Emil M. Cioran – Mircea Eliade, Una segreta complicità. Lettere 1933-1983, Adelphi, Milano, pagg. 299, € 22,00.

Cesare Angelini – Paolo De Benedetti, Quasi evangelista, quasi talmudista. Lettere (1949-1975), Morcelliana, Brescia, pagg. 320, € 21,00.

Si vedano anche: Emil Cioran – George Bălan, Tra inquietudine e fede. Corrispondenza (1967-1992), Mimesis, Sesto S. Giovanni (Milano) 2017; Emil Cioran, L’insonnia dello spirito. Lettere a Petre Ṭuṭea (1936-1941), a cura di Antonio Di Gennaro, Mimesis, Sesto San Giovanni (Milano) 2019.

Pubblicato col titolo: Idee perfezionate per corrispondenza, su IlSole24ORE, n. 238 (30/08/2020).