LA REQUISITORIA DI AMBROGIO

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Quando papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti (nn. 119-120) ha riproposto questa tesi, è partita la solita carica di strali da parte di alcuni teologi improvvisati e di agnostici devoti che vi vedevano fumo di comunismo. Si tratta del primato della destinazione universale dei beni a cui dev’essere subordinata come strumento operativo la proprietà privata, assunta dai citati avversari a dogma supremo. In realtà, il pontefice non faceva che allinearsi a una tradizione cristiana secolare che impugnava persino la sferza, come il celebre Padre della Chiesa orientale s. Giovanni Crisostomo che nel IV sec. non esitava – nella sua opera dedicata al povero Lazzaro della parabola evangelica (Luca 16,19-31) – a dichiarare che «non dare ai poveri parte dei propri beni è rubare ai poveri perché quanto possediamo non è nostro, ma loro».

         Se vogliamo, però, giungere ai nostri giorni, ecco s. Giovanni Paolo II che nell’enciclica Centesimus annus (1991) ribadiva che «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno». Per lui il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale». Papa Francesco nella citata Fratelli tutti formalizzava questa tesi tradizionale: «Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati… Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongano sopra quelli prioritari e originari, provandoli di rilevanza pratica».

         In questa linea proponiamo ora la forte attestazione di uno dei grandi Padri della Chiesa d’Occidente, che aveva alle spalle un’importante carriera politica di governatore imperiale. Tutti riconoscono in questo profilo sant’Ambrogio, vescovo di Milano dal 374 al 397. L’opera a cui ora rimandiamo s’intitola La storia di Naboth, un logo che può risultare stravagante a chi non ha assuefazione con la Bibbia. Il nucleo dal quale si sviluppa questa che è un’omelia scritta è, infatti, da cercare nel c. 21 del Primo Libro dei Re, una pagina da leggere per l’attualità straordinaria che rivela nei confronti delle prevaricazioni del potere, della corruzione della magistratura, del silenzio complice della pubblica opinione.

         L’unica e solitaria voce che si era levata, puntando l’indice contro l’ingiustizia – perpetrata nei confronti di questo semplice e onesto contadino di nome Naboth da parte del re d’Israele Acab e soprattutto della sua implacabile consorte, la principessa fenicia Gezabele – era stata quella del profeta Elia, che rischia la sua stessa vita (non è necessario esplicitare le allusioni alla nostra contemporaneità). Su questa base biblica Ambrogio – che, non lo dimentichiamo, era dotato di una forte personalità – tesse la sua vivace e perentoria applicazione dai risvolti politico-sociali, denunciando l’idolatria sclerotica della proprietà privata a scapito e non in funzione della destinazione universale dei beni.

         «Fin dove stendete, o ricchi, i vostri insani desideri? Abiterete forse da soli la terra?... La terra è stata costituita bene per tutti, ricchi e poveri: perché dunque, o ricchi, arrogate a voi il diritto di proprietà del suolo?». Sono, queste, alcune delle righe di apertura di questo scritto dalle pagine roventi, sempre proclamato a tono alto, striato di sdegno e rivolto incessantemente ai detentori di terreni, di possessi, di beni voluttuari che ignorano la folla dei miserabili che non digiunano come atto rituale bensì solo per necessità. Anche una certa filantropia ostentata come una onorificenza è spazzata via persino con sarcasmo.

         Continua, infatti, Ambrogio: «Tu non dai al povero del tuo, ma gli restituisci del suo. Tu da solo ti appropri di ciò che è stato dato a tutti, perché tutti lo usassero in comune. La terra è di tutti, non solo dei ricchi… Tu dunque restituisci il dovuto, non elargisci il non dovuto». Questa sarà anche la voce della Chiesa successiva sulla scia del vescovo di Milano, tant’è vero che un paio di secoli dopo un papa, Gregorio Magno nella sua Regola pastorale, giungerà al punto di definire «delinquenti per la rovina del prossimo» i praticanti di una generosità pelosa e ipocrita, perché «quando offriamo qualcosa che sia necessario ai poveri, rendiamo loro ciò che è già loro, non diamo ciò che è nostro, compiamo un debito di giustizia, non adempiamo a un’opera di misericordia».

         Lasciamo, dunque, al lettore di «ascoltare» la voce veemente di Ambrogio, cristallizzata nei vivaci 17 capitoletti in cui è suddivisa l’opera, lasciandosi guidare dall’esemplare traduzione con testo a fronte e dall’introduzione approntate da Domenico Lassandro e Stefania Palumbo per la collana «Corona Patrum Erasmiana». Ma per chi vorrà penetrare in tutte le sfumature, negli ammiccamenti, nelle iridescenze letterarie e teologiche quasi di ogni parola del testo santambrosiano, questi studiosi hanno allegato un monumentale «commento» che rivela una potente attrezzatura scientifica e una fervida passione.

GIANFRANCO RAVASI

Ambrogio di Milano, La storia di Naboth, a cura di Domenico Lassandro e Stefania Palumbo, Loescher, Torino, pagg. 327, s.i.p.