IL PALAZZO DELLA MEMORIA

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Mega biblíon mega kakόn: che «un libro troppo vasto sia un gran male» era una convinzione attribuita al poeta Callimaco (III sec. a.C.) e divenuta un vessillo della poetica alessandrina, allergica all’epos sontuoso di imitazione omerica e amante degli epigrammi brevi, raffinati e incisivi. Sul tema indimenticabile è una stroncatura di Flaiano: «È un libro ponderoso. Che fa pensare. Ad altro». È ovvio che, in verità, esistono capolavori imponenti, come la cattedrale poetica della Divina Commedia eretta con le 14223 pietre marmoree degli endecasillabi dei suoi cento canti.

         Questa volta, però, vorremmo proprio rimandare a un libriccino minimo ma prezioso, nato oralmente come conferenza nelle sale della Biblioteca Apostolica Vaticana, una vera regina nel suo genere. Agli allievi e ai docenti della Scuola Vaticana di Biblioteconomia il 26 marzo 2019 teneva una prolusione accademica Ivano Dionigi, rettore emerito dell’università di Bologna e finissimo esegeta di testi classici e di eventi contemporanei. Basti soltanto scorrere la trentina di pagine di questo «quaderno» per scoprire in filigrana un fondo – questo, sì, mega, anzi, mastodontico – di letture, di citazioni, di allusioni a un orizzonte umanistico affascinante.

         Le sue righe diventano, perciò, un intarsio colorato che conosce tutti gli ori della classicità ma anche le lamine di silicio incise da Steve Jobs col suo noto Commencement Address rivolto all’università di Stanford nel 2005. Se fosse ancora in vita, il fondatore di Apple si stupirebbe di essere in compagnia di un Petrarca del quale ignorava la sintonia tematica (e forse la stessa esistenza). Il titolo del volumetto la esplicita attraverso un’icona, Il Palazzo della memoria, che trova il suo architetto in sant’Agostino: nel libro X delle Confessioni egli elevava i lata praetoria memoriae, dotati di una sala immensa (in aula ingenti), pronto però a scompigliarne la topografia definendoli come locus non locus.

         Si sarà capito che la prima attrice e magistra che Dionigi fa salire in cattedra è la Memoria, la cui residenza privilegiata è la Biblioteca, «deposito della memoria». Sulla ribalta, allora, si asside la vera protagonista della lectio, che è appunto la biblioteca. A lei vengono dedicate pagine da innamorato che ne dipinge due lineamenti. Si tratta di una coppia lessicale assonante, «tradizione» e «traduzione». La prima è «lampadoforía», cioè trasmissione, è staffetta della fiaccola del sapere di generazione in generazione. La seconda è pentecostale (si legga Atti degli apostoli 2,1-11), cioè incontro, dialogo, «ospitalità linguistica», come a suo tempo suggeriva Ricoeur nel suo noto saggio sulla traduzione.

         È ovvio che, a questo punto, sgomiti per entrare in scena il Libro che è l’incarnato di quel volto amato. A impedirne l’ingresso, però, c’è la «malasorte» che lo accompagna, composta da una legione di avversari aggressivi: acque, tarli, calore, polvere, fanatismo, ignoranza, rilegatori, collezionisti bibliomani, bambini, ma – come osservava William Blades – «in quanto a potere distruttivo» il fuoco supera tutti i nemici di gran lunga. Ne sanno qualcosa ai nostri tempi Hitler, Sarajevo, Timbuctu, coi vari falò bibliocidi (e chi non ricorda il libro e il film Fahrenheit 451?).

         Ma, in positivo, c’è la libertà che sprizza dal libro (liber, anche se le due parole latine sono etimologicamente diverse tra loro, suonano in armonia «libro» e «libero»). C’è la sua vitalità che genera veri e propri figli nei lettori, se è vero quello che Conrad affermava: «Si scrive solo una metà del libro, dell’altra metà si deve occupare il lettore». C’è persino la salvezza, come aveva narrato Romano Guardini nel suo Elogio del libro: nell’ultima guerra, un cappellano, sicuro che la sua pattuglia fosse ormai chiusa in una sacca sotto il tiro dell’armata avversaria, non avendo a disposizione l’eucaristia, aveva estratto dal taschino il suo «Nuovo Testamento», ne aveva strappato tanti fogli quanti erano quei soldati e li aveva distribuiti a loro come viatico estremo.

         Dopo la Memoria, la Biblioteca, il Libro, appare anch’essa personificata la figura che chiude la sfilata, la Parola, il Lόgos divino e umano che è «in principio», come ammoniscono in sintonia la Genesi e il Vangelo di Giovanni. Nel solo Nuovo Testamento lόgos risuona 330 volte e il verbo generatore légô, «dire, parlare», ben 2353 volte. Dionigi conclude, allora, il suo discorso quasi con un canto litanico a questa realtà così fragile e potente, creatrice e devastatrice, gloriosa e infame, trascendente e carnale.

         Ma a suggello, dato che la voce dell’autore di questo libro minuscolo è echeggiata in una biblioteca, è bello far emergere dall’ombra un oscuro storico greco, Ecateo di Abdera (IV-III sec. a.C.) che, nella sua Storia dell’Egitto, descriveva la sua sorpresa quando, giunto davanti a quella che si riteneva fosse la sede della biblioteca del faraone Ramesse II, vissuto mille anni prima, aveva scoperto sul frontone del portale d’ingresso un’iscrizione geroglifica che, tradotta in greco, significava psychês iatréion, cioè «clinica dell’anima». Forse era questo lo stesso pensiero che aveva spinto, attorno al 1450, papa Niccolò V a creare la Biblioteca Vaticana, accompagnandola nel Palazzo Apostolico con quella cappella che avrebbe preso il suo nome, «Niccolina», affrescata dal Beato Angelico, simbolo di un intreccio tra cultura e fede, tra estetica e mistica.

GIANFRANCO RAVASI

 

Ivano Dionigi, Il palazzo della memoria, Biblioteca Apostolica Vaticana, pagg. 31, s.i.p.