Nel semestre invernale 1920-21, Martin Heidegger, poco più che trentenne, propose all’università tedesca di Friburgo un corso di Introduzione alla fenomenologia religiosa, il cui manoscritto non sarà mai ritrovato e rimarranno solo le trascrizioni stenografiche degli uditori (accurata la traduzione italiana di G. Gurisatti, pubblicata da Adelphi nel 2003). Ora, la seconda parte di quell’Introduzione era dedicata a un’“Explikation” fenomenologica dell’“esperienza cristiana della vita” sulla base di tre Lettere paoline, quella ai Galati e le due ai Tessalonicesi. Nella massa di testi che vengono sfornati per il bimillenario della nascita di san Paolo attualmente in corso, un’originalità particolare se non unica acquista la suggestiva raccolta di saggi che Aniceto Molinaro ha approntato, convocando i più bei nomi dell’esegesi heideggeriana (soprattutto sul versante “teologico”), a partire dal discepolo e collaboratore Friedrich-Wilhelm von Herrmann, per passare a Bernhard Casper e ai nostri Umberto Regina e Pietro De Vitiis.
Nato cattolico, divenuto seminarista e alunno di uno scolasticato gesuita, Heidegger si staccò da quell’orizzonte, optando inizialmente per una sacralità di stampo neopagano-romantico sulla scia del poeta Hölderlin. Ma il legame con le radici cristiane riaffiorò ben presto e queste lezioni ne sono un’attestazione; ma sono pure la culla della sua futura ramificata architettura ideale che avrà una prima grandiosa componente nell’Essere e il tempo del 1927. Infatti, nelle lezioni “esegetiche” paoline affiorano già temi come quelli del “compimento”, ossia del vissuto (della fede), della “temporalizzazione” opposta a una visione oggettiva del tempo, della storicità e della sua meta o “destinalità”. Così, nell’analisi della Lettera paolina ai Galati è il vissuto a dominare: esso ospita nel suo grembo il morire alla “legge”. L’Apostolo, quindi, vive il tempo in quanto egli muore a ciò che vorrebbe far morire il tempo. La morte di Cristo, emblematicamente incarnata nello “scandalo della croce”, obbliga il credente a vivere il tempo e non semplicemente nel tempo o con la paura del tempo perché esso diventa un grembo di vita, di salvezza, di “compimento”.
Similmente le Lettere ai Tessalonicesi riescono nitidamente a intrecciare storicità ed escatologia o, per dirla heideggerianamente, compimento e destinalità. Infatti, il tempo è irradiato dall’attesa della parousía, cioè della venuta ultima di Cristo, che è già in azione generando così fin da ora pienezza di vita, compimento appunto. Per questo, la temporalità cristiana è gioiosa anche se appesantita dalle tribolazioni, è già intrisa della pienezza escatologica, non è una mera sequenza oggettiva cronologica, ma un’esperienza esistenziale, «la vita non è un puro scorrere di vissuti, la vita è solo in quanto la si ha». La parousía non è, quindi, soltanto attesa, ma è già un compimento che è però in crescita dinamica come lo sono la vera vita e la temporalità vissuta e non puramente scandita cronologicamente: «Il pisteuein [nel greco paolino è il “credere”] è un contesto di compimento capace di aumento».
Naturalmente molti altri sono gli aspetti che emergono dagli studi raccolti in questo prezioso libretto, per certi versi originale nel panorama della bibliografia paolina. Così, ad esempio, rilevante – nello sguardo che il filosofo allarga oltre la trilogia epistolare citata – è «il confronto tra la filosofia greca e l’esistenza cristiana, destinato a mostrare la deformazione operata dall’influsso di una filosofia greca pessima ed epigonale», come scrive il curatore Molinaro nella sua premessa. Interessante è anche l’approccio fenomenologico adottato da Heidegger, dialettico rispetto a quello teoretico di Husserl e concepito piuttosto come analisi del vissuto, della “fattualità” dell’esistenza e dell’esperienza, in questo caso cristiana. Significativo è anche il processo di elaborazione di una filosofia/teologia cristiana partendo non da presupposti teorici quanto piuttosto dall’analisi del dato religioso.
È proprio per queste (e altre) ragioni che il filosofo di Friburgo ha esercitato un forte e controverso influsso sulla teologia del Novecento. Solo per evocare due “giganti”, antitetici però negli esiti, si pensi a Rudolf Bultmann (che fu collega di Heidegger a Marburg) e alla sua interpretazione esistenziale e “demitizzante” del messaggio cristiano e a Karl Rahner che dichiarava di considerare Heidegger il suo unico “maestro” tra tanti “insegnanti” avuti. Casper, nelle pagine del suo intervento, ricorda la risposta alla domanda sulla fede che il filosofo offrì durante un incontro nell’estate del 1951: «Sono 40 anni che sto pensando al problema di Dio e credo di non avervi ancora pensato sufficientemente». Aveva, allora, ragione il filosofo della religione Bernhard Welte, nato anche lui nella cittadina di Messkirch (Baden), patria di Heidegger, quando definiva il suo conterraneo «il più grande ricercante del nostro secolo».
Autori Vari, «Heidegger e San Paolo», a cura di Aniceto Molinaro, Urbaniana University Press, Città del Vaticano, pagg. 157.