ROSSANO E IL DIO PLURALE

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Già allora – siamo alla fine del ’500 – Francesco Bacone (Francis Bacon) nei suoi celebri Saggi annotava questa amara considerazione: «La fama è come un fiume che porta a galla le cose leggere e gonfie e manda a fondo quelle pesanti e massicce». Accade, così, che alcune figure dall’umanità solida e profonda vengano sommerse dalle onde dell’oblio, soprattutto quando – come avviene ai nostri giorni – questi flutti scorrono freneticamente. Per fortuna talvolta anche il genere della tesi di laurea (ora in calo di qualità: si provi a esaminarne alcune dei corsi triennali!), può ripescare dal fondo del fiume qualche personaggio non acclamato ma culturalmente «pesante e massiccio».

È il caso di un vescovo e intellettuale di origine piemontese, Piero Rossano (1923-1991), che è stato nella fase post-conciliare un punto di riferimento alto come esegeta biblico, teologo raffinato, animatore del dialogo interreligioso e interculturale. Avendo avuto la fortuna di conoscerlo e di collaborare con lui, sia pure per un arco temporale breve, posso attestare quanto sorprendente fosse la ricchezza della sua conoscenza, l’acutezza delle sue intuizioni, la genialità del suo approccio alle altre fedi e culture. A riportarlo sul proscenio è appunto una tesi di laurea (questa, però, di grande qualità) presso la Pontificia Università Gregoriana condotta dal padovano Giulio Osto, che ora è in cattedra presso la Facoltà Teologica del Triveneto.

Ricorrere al genere della dissertazione per classificare il suo lavoro è, però, riduttivo, perché la ricerca imponente e accurata sottesa al testo lo trasforma in una perfetta biografia che insegue tutti i percorsi di una personalità che si è sempre mossa tra Bibbia, religioni e culture (e il plurale è significativo). Questi, poi, sono temi che soprattutto oggi si aggrovigliano, rivelandosi roventi ma necessari. Osto ricorre a un simbolo per delineare l’impianto del suo ritratto di mons. Rossano, ossia alle tre arcate di un ponte: «la prima è costituita da un racconto ragionato della vita dell’autore, la seconda dall’analisi minuziosa di tutti i suoi scritti e, infine, la terza arcata da una ripresa sistematica e critica dei numerosi dati raccolti».

In questo itinerario l’autore procede sostenuto anche da uno stile quasi narrativo che permette di scoprire una galleria di figure, di incontri, di temi, di eventi, di angoli remoti e di platee pubbliche, sempre all’insegna di una parola che sarà assegnata a questo vescovo come soprannome, “Monsignor dialogo”. Un dialogo iniziato già con la sua prima tesi di laurea in Lettere classiche a Torino che lo aveva introdotto nel terreno della contaminazione tra Atene, Gerusalemme e Roma. Sarà, questo, il triangolo che reggerà a lungo la sua ricerca, destinata poi ad aprirsi anche alle altre civiltà, dall’ebraica alla musulmana, dall’induista alla buddhista, fino alle religioni di Africa e Asia.

Alla base c’era la sua convinzione che il Vangelo fosse per eccellenza dialogo e alla calibratura di questa dimensione – che già aveva coinvolto i primi intellettuali e pastori della cristianità (i Padri della Chiesa) – Rossano consacrerà non solo le sue investigazioni teologiche ma anche il suo impegno di docente e poi rettore universitario e di responsabile vaticano dell’allora Segretariato per i non cristiani, costituito nel 1964 da Paolo VI e trasformato nel 1988 da Giovanni Paolo II in Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso. Osto, però, punta soprattutto sulla rielaborazione teorica che Rossano ha creato attorno al confronto con le diverse fedi perché esso fosse fecondo ed evitasse i due scogli estremi del fondamentalismo e del sincretismo, contro i quali la nave del dialogo ai nostri giorni non di rado s’incaglia o si sfascia.

Dato che abbiamo evocato questo nodo capitale nel pensiero e nell’opera di un personaggio di grande finezza ma anche di viva passione, riserviamo un cenno al quadro generale della recente discussione teologica sulla pluralità delle religioni. Lo facciamo rimandando a una sintesi – non del tutto riuscita ed efficace, nonostante (o forse a causa) la genesi divulgativa – intitolata appunto Dio al plurale, proposta da Rémi Chéno, un domenicano francese che opera al Cairo, in contatto col mondo musulmano. Sostanzialmente sono tre le vie indicate per edificare una teologia delle religioni, nella consapevolezza della delicatezza della questione, ma anche nella certezza che a livello serio e qualificato ormai si è passati dallo scontro all’incontro, dall’anatema al dialogo. Ricordiamo, tra l’altro, che questi binomi sono stati nei titoli di altrettanti saggi molto noti del teologo belga Jacques Dupuy, massimo (e talora contestato) esperto in materia, e del filosofo francese Roger Garaudy.

La prima via è quella “esclusivista”, secondo la quale Cristo è l’unico ed esclusivo mediatore della salvezza che è offerta nella Chiesa che è il suo “corpo” presente nella storia. Da questo alveo sarebbero perciò escluse le altre religioni, senza però impedire che si possa aprire un varco attraverso un votum personale implicito di adesione per i non cristiani che vivono secondo giustizia, moralità e integrità. A questa categoria, ma con molti distinguo, Chéno assegna il pensiero del famoso teologo protestante Karl Barth. Molto più esplicito è il rappresentante della seconda via, quella dell’“inclusivismo”: l’altrettanto celebre teologo tedesco Karl Rahner con la sua definizione dei «cristiani anonimi». Se, come dice san Paolo, «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità», i vari percorsi religiosi sono inseriti in questo piano divino universale di salvezza, che è attuato in Cristo ma a cui si partecipa seguendo la propria fede che non è più un ostacolo ma un tramite efficace.

Infine, soprattutto a partire dal saggio del teologo britannico John Hick dal titolo emblematico, Dio ha molti nomi (1982, tradotto da Fazi editore nel 2014), si è configurata la via “pluralista”, seguita da altri studiosi, come il noto pensatore Raimon Panikkar. Tutte le religioni convergono idealmente verso il centro che è Dio. Egli allarga le braccia del suo amore a tutti per cui – come scrive Chéno – «non si tratta più di definire quella che sarebbe la fede “buona”, ma di riconoscere la “buona fede” dei veri credenti». Cristo – per usare un’espressione di Hick – è, sì, totus Deus, “totalmente Dio” che esprime l’amore divino, ma non è il totum Dei, “la totalità di Dio” il quale si manifesta anche in altre sue azioni d’amore.

Altre articolazioni sono fiorite attorno a questa trilogia, come l’“approccio post-liberale” delineato da Chéno che attinge a ulteriori proposte, fermo restando il principio che «il dialogo delle religioni non è un bricolage» e neppure un affondare nella palude del relativismo. Il ritorno, perciò, a figure come Rossano col loro rigore intellettuale intrecciato con la passione testimoniale dell’incontro può essere un antidoto contro ogni scorciatoia integralista o sincretista (interessante, a livello generale, fu la scoperta, da parte di Rossano, di un pensatore austriaco originale e ignorato come Ferdinand Ebner).

GIANFRANCO RAVASI

Giulio Osto, La testimonianza del dialogo. Piero Rossano tra Bibbia, religione e cultura, Glossa, Milano, pagg 692, € 40,00.

Rémi Chéno, Dio al plurale. Ripensare la teologia delle religioni, Queriniana, Brescia, pagg. 120, € 14,00.

Pubblicato col titolo: «Monsignor dialogo» e il Dio plurale, su IlSole24ORE, n. 317 (17/11/2019).