OSPITALITÀ, RISCHIO, DESIDERIO

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«Abramo andò in fretta nella tenda, da Sara, e disse: Presto, tre staia di fior di farina, impastala e fanne focacce. All’armento corse lui stesso: prese un vitello tenero e gustoso e lo diede al servo perché si affrettasse a prepararlo. Prese panna e latte fresco insieme col vitello cucinato e li presentò a loro». Questo è il menu che, secondo la Genesi (18,6-8) il patriarca ebreo offrì ai tre ospiti misteriosi giunti alla sua tenda sotto le querce di Mamre, scena immortalata nella celebre icona della Trinità di Andrej Rublëv, centro dell’altrettanto famoso film di Andrej Tarkovskij.

         Cibo e ospitalità s’incrociano costantemente in tutte le culture: si pensi solo ai pranzi nuziali e persino a quelli funebri. È ciò che attesta anche la scrittrice anglo-indiana sikh Priya Basil, con un suo breve saggio fragrante e saporito come uno dei piatti che evoca nelle sue pagine, fermamente convinta che la condivisione della mensa sia comunione di esistenza. Annota, infatti, che «delle oltre 15000 iniziative promosse in Germania dal 2015 per aiutare i rifugiati in arrivo, una percentuale consistente è incentrata sul cucinare e mangiare insieme come strumento per favorire la comunità». È ciò che sa bene la «Caritas» di ogni paese. Per questo comporre un «elogio dell’ospitalità» può avere come soggetto dominante proprio il cibo, nella consapevolezza che è vero anche spiritualmente l’asserto solo materialistico di Feuerbach secondo il quale «l’uomo è ciò che mangia».

         Passiamo a un altro «elogio» più inatteso, quello del rischio. Lo intesse, in una stesura ben più sofisticata rispetto al precedente scritto, la filosofa e psicanalista francese Anne Dufourmantelle che, tra l’altro, aveva alle spalle un volume intitolato proprio De l’hospitalité, elaborato nientemeno che con Jacques Derrida. Lei il rischio l’ha corso in pienezza fino al punto di esserne vittima: è morta, infatti, a 53 anni per arresto cardiaco in mare, mentre cercava di salvare il bambino di un’amica dall’annegamento. Era l’incarnazione di quella frase folgorante pronunciata da Gesù nell’ultima sera della sua vita terrena: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Giovanni 15,13).

         In una sequenza di cinquanta scene che sbocciano in riflessioni, inaugurate e concluse dalla figura «senza tempo e ultra-contemporanea» di Euridice, la sposa del mitico Orfeo, la pensatrice riesce a ricomporre quasi un poliedro dalle molte facce ora luccicanti, ora macchiate, perché il rischiare non è un atto univoco. Esso ha alla radice la stessa libertà decisionale della persona che si scrolla di dosso il manto pesante dell’ovvio, della sicurezza scontata, del quieto vivere affacciato sulla mediocrità. Il rischio ha, tuttavia, anche un volto oscuro fatto di temerarietà e di azzardo. Esso, però, quando è autentico e generoso non è un mettere a repentaglio la propria vita in uno stravagante gioco di dadi. È, invece, un inoltrarsi nella notte, nell’ignoto, nella pienezza; è un elaborare le stesse criticità dell’esistenza senza cedervi sconfitti e senza sfidarle ciecamente.

         Il ventaglio dei sentieri da osare è molto variegato: amore, passione, paura, tristezza, solitudine, felicità, speranza, incomprensione, bellezza, futuro, spirito, inferno e paradiso, e così via. Ma in ogni caso ci si deve avviare sulla strada «in-finita» del desiderio. E qui viene in aiuto il bel volumetto di un altro filosofo di grande finezza intellettuale e dal dettato sempre attraente, Silvano Petrosino, che sottotitola il suo saggio sul desiderio proprio con l’asserto «Noi siamo figli delle stelle» (de sideribus, appunto). Tante sono le suggestioni che le sue pagine ci offrono, partendo da una distinzione decisiva tra «desiderio» e «bisogno».

         Sì, perché l’autentico desiderare non è un puro e semplice vuoto da colmare, non è un coprire una mera esigenza fisica o una mancanza materiale, come talora lo è quella duplice degenerazione psichica che è la cupidigia e la concupiscenza. È, invece, un aprirsi all’altro e all’oltre, che possono persino assumere la maiuscola della trascendenza. È uno spalancare l’uscio dell’io rinserrato dalla chiave dell’egoismo e incamminarsi nell’orizzonte del mondo, tentando persino la scalata verso quelle stelle da cui siamo discesi (e la stessa nostra composizione fisica lo attesta).

         Certo, c’è anche la decadenza del desiderio in brama o in illusione, come ammoniscono i due comandamenti finali del Decalogo sul «non desiderare moglie e casa del tuo prossimo». C’è il bieco binomio desiderare-prendere che acquista forme persino macabre quando la sessualità amputa ogni fioritura in eros e amore e si riduce a mero istinto e possesso. Il vero desiderio, che la donna del Cantico dei cantici esalta come celebrazione suprema eppure mai saziata dell’amore, sboccia anche nelle distese luminose della mistica: «Come la cerva desidera i corsi d’acqua, così l’anima mia desidera te, o Dio» (Salmo 42,2). E Petrosino, che pure convoca nelle sue pagine l’amato Lévinas, Lacan, Heidegger e persino Kafka, non può non approdare anche sulle sponde dell’«inquietudine» di sant’Agostino, il cui cuore ardente nel desiderio non ha posa finché in Dio non riposa.

GIANFRANCO RAVASI

Priya Basil, Elogio dell’ospitalità, Il Saggiatore, Milano, pagg. 130, € 16,00.

Anne Dufourmantelle, Elogio del rischio, Vita e Pensiero, Milano, pagg. 215, € 16,00.

Silvano Petrosino, Il desiderio, Vita e Pensiero, Milano, pagg. 96, € 13,00.