«TESE LA MANO E LO TOCCÒ»

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C’è nel Vangelo di Marco una pagina che segna in modo inequivocabile l’originalità di Gesù e la sua discontinuità dal terreno del giudaismo sul quale pure poggiano i suoi piedi (1,40-45). È l’episodio dell’incontro con un malato particolare, il lebbroso, un’affezione dai risvolti non solo clinici (era ritenuta fortemente infettiva) ma anche etico-religiosi. Infatti, per la cosiddetta “teoria della retribuzione”, secondo la quale a ogni delitto corrisponde una punizione, questa sindrome era anche il sintomo di una colpa vergognosa segreta che rendeva il malato uno “scomunicato”. Per questo era relegato nelle periferie degradate, ospite di caverne, segregato tra gli immondezzai, come nel caso di Giobbe, colpito da «piaga maligna».

Il libro biblico delle norme sacrali, il Levitico, non aveva esitazioni: «Il lebbroso indosserà stracci, starà a capo scoperto, si velerà la barba e andrà gridando: Impuro, impuro!» (13,45-46). Era, quindi, socialmente un cadavere ambulante, schivato con orrore dai sani, timorosi di essere infettati non solo fisicamente ma anche moralmente e sacralmente. Ecco, invece, la scelta scandalosa di Cristo: «Commosso profondamente, tese la mano, lo toccò e gli disse: Lo voglio, sii purificato!». Quel gesto, in nome della compassione, viola le norme socio-rituali e quella mano che tocca, quasi ad assumere su di sé il male, diventa un segno provocatorio e liberatorio. Come è noto, Mauriac nell’omonimo romanzo del 1922, introdurrà la variante del Bacio del lebbroso.

Abbiamo ricostruito ampiamente questa scena per rimandare a un bel saggio della scrittrice ed esegeta francese Marie-Laure Veyron che s’intitola proprio con questo sintagma evangelico Tese la mano e lo toccò e che, nell’orizzonte più ampio della corporeità, intesa in modo ben più “simbolico”, cioè pieno, di quanto accadeva nella cultura greca e persino in quella contemporanea, punta l’obiettivo su questo verbo, il “toccare”. Tra parentesi, il greco háptomaí ricorre 39 volte nel Nuovo Testamento, mentre chéir, la “mano” ben 177 volte. Il tatto, un senso primordiale che rivela prossimità e reciprocità, viene così sottoposto dalla studiosa a una suggestiva analisi semantica col contributo anche della psicanalisi per mostrarne tutte le variazioni.

C’è, infatti, nei Vangeli un toccare taumaturgico per guarire o benedire, c’è il contatto compassionevole e tenero, c’è il sostegno della parola che arricchisce e scioglie i significati del gesto, c’è il riflesso tattile del desiderio, ma c’è anche il celebre Noli me tangere rivolto dal Risorto alla Maddalena. Sostanzialmente la Veyron ordina queste iridescenze tematiche in una trilogia evangelica sviluppata secondo un disegno narrativo e coerente. Si parte dal toccare che guarisce e che si esprime in forme diverse: si pensi all’emorroissa che afferra il lembo del mantello di Gesù il quale, poco dopo, prende nella sua la mano della figlioletta, apparentemente morta, di Giairo (Marco 5,21-43). Si procede, poi, verso il contatto fisico come segno dell’amore di Cristo: è ciò che accade nei confronti del figlio morto della vedova di Nain (Luca 7,11-17). E si conclude con la tenerezza della prostituta che bacia, tra le lacrime, i piedi di Gesù sollecitando la reazione scandalizzata del fariseo Simone: «Se costui fosse un profeta, saprebbe chi è, e di quale genere è la donna che lo tocca: è una peccatrice!» (Luca 7,36-50).

Sono solo alcuni cenni riguardo a un saggio veramente attraente che sa intrecciare sguardi differenti (esegetici, teologici, psicologici, linguistici, letterari, semantici, ermeneutici, spirituali) così da far brillare tutte le sfumature e dimensioni di un atto spontaneo e creativo, esemplarmente raffigurato appunto in un Gesù che tocca e si lascia toccare. E dato che ci siamo accostati a questo microcosmo che è il nostro corpo, possiamo appaiare al testo della Veyron una vera e propria gemma della letteratura mistica occitana, un’opera quasi ignota agli stessi studiosi, La scala del divino amore, giunta a noi in un solo documento, il manoscritto Egerton 945 della British Library. A presentarcelo in una traduzione accompagnata da un’imponente introduzione è uno dei nostri massimi studiosi di letteratura medievale teologico-allegorica, Francesco Zambon, a cui collabora per il commento e le note al testo un’altra qualificata docente di Trento, Claudia Di Fonzo.

L’autore sconosciuto, di impronta spirituale francescana, innalza in queste poche pagine una scala ascensionale che approda al Palazzo d’Amore ove si celebra l’abbraccio tra creatura e Creatore. Noi abbiamo unito questo scritto al precedente studio sul “tocco” cristologico perché la scala mistica in questione – un simbolo, per altro, classico nella tradizione teologica sia orientale sia latina – si compone di cinque gradini che corrispondono ai cinque sensi corporei. Si tratta, anche in questo caso, di una costellazione tradizionale che, partendo dalla Bibbia, si dirama nei Padri della Chiesa, da Agostino fino al Medioevo. La sequenza della Scala in questione è articolata secondo un ordine graduale modulato su un orizzonte cosmico (l’atto creativo è tratteggiato a sorpresa come una “ballata” eseguita da Dio con le sue creature).

Si ha, infatti, la convinzione che i quattro elementi (terra, acqua, aria, fuoco) abbiano in sé «dolcezza, soavità, profumo, melodia di canto, bellezza e candore». Su questo palinsesto si sviluppa il pentagramma dei sensi: la dolcezza è percepita dal gusto, la soavità dal tatto, il profumo dall’olfatto, la melodia dall’udito e, infine, la bellezza dalla vista. La tesi fondamentale è che i sensi custodiscono in sé una carica spirituale ed estetica “analogica” tale da condurre al vertice supremo divino in cui tutte le esperienze raggiungono il loro acme e permettono, quindi, l’intima comunione della persona umana con Dio. Come scrive Zambon nel libro, sulla scia del Cantico di Frate Sole di san Francesco, «il tema centrale è quello dell’amore di Dio attraverso le sue creature e del progressivo avvicinarsi a lui che si può realizzare grazie a un corretto uso dei cinque sensi, disposti in una scala ascendente che va dal più basso, il gusto, al più alto, la vista».

Ancora una volta si ha la smitizzazione dello stereotipo secondo il quale la mistica sarebbe un’esperienza eterea che fa decollare dalla terra e dalla corporeità verso cieli mitici e verso un’accolta di puri spiriti. Ed è anche la riaffermazione di un cristianesimo che ha il suo nodo fondante nell’«incarnazione» per cui il Logos divino ed eterno, come si proclama nel celebre prologo innico del Vangelo di Giovanni, sarx eghéneto, «carne divenne» (1,14).

GIANFRANCO RAVASI

Marie-Laure Veyron, «Tese la mano e lo toccò», Qiqajon Bose (BI), pagg. 214, € 22,00.

Scala del divino amore, a cura di Francesco Zambon e Claudia Di Fonzo, Paoline, Milano, pagg. 154, € 26,00.

(Pubblicato col titolo: Benedire con il «tangere», su IlSole24ORE, n. 310 (10/11/2019).