LA CONVERSIONE SFIORATA DI GIDE

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Un giorno Ermanno Olmi mi aveva interrogato sui soggetti religiosi che, a mio parere, fossero i più «scenografici»: era facile per me rimandare a quel rutilante arcobaleno di scene che reggono la trama delle Scritture Sacre, vero e proprio lessico simbolico dell’arte occidentale. Egli, però, mi aveva opposto lo scoglio di Paolo che opponeva un’implacabile cortina di riflessioni astratte, tant’è vero che è stato coinvolto nell’areopago dei filosofi non solo di Atene (Atti degli Apostoli 17,16-34) ma anche della stessa modernità. Maritain, infatti, pescava dal suo epistolario il tema dell’umanesimo cristiano, Heidegger vi riconosceva i germi esistenziali, Taubes la teologia politica, Badiou estraeva l’idea dell’universalità, Marion la dialettica tra fede e ragione e persino il nostro Vattimo lo aveva coinvolto nel suo pensiero debole attraverso la dottrina della kénosis, ossia lo «svuotamento» della divinità di Cristo nell’incarnazione. D’altronde già Spinoza era convinto che «nemo Apostolorum magis philosophatus est quam Paulus» (e il latino un po’ maccheronico esime dalla traduzione).

         Eppure, obiettavo al regista amico, la sua conversione folgorante, narrata ben tre volte negli Atti degli Apostoli, è stata sempre uno straordinario topos iconografico (Michelangelo insegna, col suo affresco nella Cappella Paolina vaticana). Il discorso si spostò, così, su un tema che ha mosso le corde prima delle anime e poi delle penne di molti, quello appunto della «conversione» che ha nella paolina «via di Damasco» il suo emblema: si pensi a Strindberg col suo dramma Verso Damasco che, però, non conduce alla città della rinascita ma in un labirinto onirico a spirale senza approdo alla finale folgorazione. Una storia delle conversioni – dicevo a Olmi – sarebbe un soggetto che riempirebbe un’enciclopedia di esempi letterari e artistici.

         Ognuno, infatti, può allargare l’esemplificazione partendo da qualsiasi crocevia dell’antichità, forse col lamento dantesco: «Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre, / non la tua conversion, ma quella dote / che da te prese il primo ricco patre!» (Inferno XIX, 115-117). E come non allegare le Confessioni di Agostino, autobiografia di una conversione, ma anche tanto altro, con incessanti sconfinamenti nella teologia, nella filosofia, nell’esegesi, nell’apologetica, nell’invocazione? Noi ora, però, restringiamo l’orizzonte, per venire al testo che vorremmo presentare, puntando sulla Francia ove ci può venire incontro Paul Claudel che entra in Notre-Dame agnostico e scettico: avvolto dall’armonia suprema del gregoriano, ne esce credente e discepolo. L’enfasi francese risplendeva già in modo lapidario anche nella vicenda di Chateaubriand che nel suo Genio del cristianesimo si affidava a due soli verbi declamati: J’ai pleuré et j’ai cru, lacrime e fede s’intrecciano rigenerando René in un lavacro battesimale.

         Giungiamo, però, a un testimone inatteso davanti al quale sostiamo. La sua era stata inizialmente una «perversione», scrollandosi di dosso il puritanesimo della famiglia ugonotta che gli aveva paralizzato l’anima col suo rigorismo decalogico, come egli stesso aveva confessato, al punto tale da intitolare uno dei suoi maggiori romanzi L’immoralista, nel cui protagonista, il giovane scienziato Michel, egli si rispecchiava. Tutti hanno capito che stiamo parlando di André Gide, un monumento della letteratura francese del Novecento, Nobel nel 1947. Se il romanzo citato è del 1902 quando egli era trentatreenne, qualcosa di ben diverso s’incontra vent’anni dopo, nel 1922 col «quaderno verde» di frammenti intitolato Numquid et tu?, che è invece la storia di una conversione sfiorata e presto sfiorita.

         Essa era stata stimolata da una corona di scelte spirituali compiute da amici e interlocutori. Pensiamo al drammaturgo Henri Ghéon che aveva abbracciato la fede sotto le granate durante le battaglie della prima Guerra mondiale, tanto da comporre poi una sorta di sacra rappresentazione, Il povero nel sottosuolo (1920). Analoga sarebbe stata l’esperienza del critico Jacques Rivière, nel suo scritto Sulle tracce di Dio (1925), o quella antecedente dello scrittore Ernest Psichari descritta nel suo Viaggio del centurione (1916), o ancora quella successiva del romanziere e italianista Dominique Fernandez. Tuttavia per Gide decisivo sarà soprattutto l’amico Charles Du Bos, critico e saggista, che lo spingerà alla pubblicazione proprio del «quaderno verde», così come sarà rilevante il dialogo epistolare con un altro convertito, il citato Paul Claudel, e con l’adamantino apologeta della fede cristiana François Mauriac. Numquid et tu? è il picco più alto dell’ascesa di Gide verso i cieli del divino. In realtà, la lettura di queste pagine, proprio a causa della loro frammentarietà, registra le oscillazioni del suo percorso di conversione e soprattutto la matrice che lo sostiene.

         Per ricomporre la mappa di questo itinerario fluido è preziosa l’introduzione (che è un vero e proprio saggio pubblicato già nel 1949) di Elvira Cassa Salvi. È lei, ad esempio, a suggerirci che in verità lo sguardo dello scrittore non è sempre puntato verso il cielo cristallino del divino: «I suoi occhi si sono spalancati coscienti sull’abisso e, pur in preda al terrore, non può vincere in sé la fascinazione irresistibile che ve lo attira». Egli, alla maniera del Paolo del c. 7 della Lettera ai Romani, si sente strattonato fino allo squartamento tra l’amore di Dio e il fascino di Satana. Significativa è la sua invocazione a Dio datata 16 giugno 1916: «Ah! Non lasciate che il Maligno prenda il vostro posto nel mio cuore! Non vi lasciate spodestare, Signore! Se voi vi ritirate completamente, egli si insedia». E ancora: «Mio Dio, vengo a voi con tutte le mie piaghe, che sono divenute ferite; con tutti i miei peccati sotto il peso dei quali la mia anima è schiacciata» (29 ottobre 1916).

         Al nadir del mistero del male, vagliato in tutte le sue colorazioni tenebrose, si associa però – come si diceva – lo zenit celeste che ha in Cristo la sua epifania suprema. Sono, queste, le pagine più ardenti, a partire da quelle dedicate alle parole del Vangelo che spesso intarsiano il dettato stesso del diario con citazioni illuminanti. Paradossale è, al riguardo, questa sua professione di fede, posta in apertura al quaderno: «Signore, non perché mi sia stato detto che voi eravate il figlio di Dio, ascolto la vostra parola; ma la vostra parola è bella sopra ogni parola umana, e da questo io riconosco che voi siete il figlio di Dio».

         E subito dopo continuava con un’annotazione di pretto stile evangelico e persino paolino: «Il Vangelo è un piccolo libro molto semplice, che bisogna leggere in tutta semplicità. Non si tratta di spiegarlo, ma di ammetterlo. Esso non ha bisogno di commenti e ogni sforzo umano per chiarirlo, l’oscura. Non ai sapienti si rivolge; la scienza impedisce di potervi nulla capire. Vi si accede con la povertà di spirito». Tante altre sono le annotazioni su Cristo, che non evitano neanche lo «scandalo» dei miracoli e non escludono l’esito finale del Golgota. Anzi, come osserva la curatrice, è proprio «meditando le ultime parole di Cristo agonizzante, che Gide trova in esse la dimostrazione della divinità di Cristo stesso». Egli, infatti, vi scopre il perfetto incrocio dialettico tra «l’essere umano che parla» e la rinuncia all’umanità nella morte per far prevalere Dio: «qui egli diventa veramente Dio» (15 febbraio 1916).

         Tante altre sono le sollecitazioni che suscitano le righe di Numquid et tu? e che sono esplicitate ed esplorate dall’esegesi di Elvira Cassa Salvi e che sono destinate a sorprendere i lettori di molte altre ben diverse pagine gidiane. In appendice un cenno merita il titolo latino che è anch’esso evangelico, secondo la versione latina della Vulgata e che, proprio col suo interrogativo, esprime l’artiglio spirituale che ha lacerato cuore e mente dello scrittore. In un paragrafo del Vangelo di Giovanni (7,40-53) per due volte risuona, con una punta di sarcasmo, questa domanda. Innanzitutto sono i farisei che, contro le guardie incapaci di arrestare Gesù a causa della sua straordinaria parola, inveiscono: Numquid et vos seducti estis?, «forse anche voi vi siete lasciati ingannare?» (7,4). E quando è un sinedrita importante come Nicodemo a obiettare in difesa di Gesù, essi gli replicano a muso duro: Numquid et tu Galilaeus es?, «forse anche tu sei galileo?» (7,52). È qui l’evidente sorgente del titolo del «quaderno verde».

GIANFRANCO RAVASI

André Gide, Numquid et tu?, a cura di Elvira Cassa Salvi, con testo francese a fronte, La Vita Felice, Milano, pagg. 156, € 12,00.

Pubblicato col titolo: Conversione sfiorata e sfiorita di André Gide, su IlSole24ORE, n. 336 (06/12/2020).